Estratto dell'articolo di Roberta Scorranese per il Corriere della Sera
Da bambina le piaceva disegnare, scommettevano su di lei come futura artista?
«Di certo nessuno immaginava che un giorno sarei diventato un'atleta. Lo sport, per una donna nata nel 1953, al massimo poteva essere un passatempo. E da coltivare con moderazione».
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E però, la piccola Sara, nata a Rivoli Veronese, sulle rive dell'Adige, si divertiva a correre sul prato della casa-azienda agricola di famiglia.
«Tutto cominciò per caso, con una insegnante di educazione fisica che convinse i miei genitori a iscrivermi a una scuola di atletica leggera.
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«Capitana» senza volerlo.
«Il punto è che all'epoca non c'era tutta questa ricerca scientifica intorno allo sport.
sara simeoni lbro una vita in alto
Spesso saltavi e basta, correvi e basta. Oggi il mio mal di schiena perenne è dovuto anche al fatto che alcuni movimenti forse erano sbagliati ma non lo sapevi. Tutto era rudimentale, pensi che quando veniva il ciclo si faceva fatica anche a parlarne, lo chiamavano “il carattere delle donne”, era una specie di incidente increscioso mensile».
Nella sua autobiografia (Rai Libri) «Una vita in alto», lei racconta che lo stile ventrale, con la pancia in sotto, era quello dominante. Ci si trovava bene?
«No, mi faceva paura, io preferivo lo stile a forbice. Gli allenatori poi vedevano le donne atlete come una perdita di tempo e allora ci caricavano di fatica fisica assurda, convinti che avremmo mollato dopo un po' per metterci a ricamare e a far da mangiare».
Lei, però, non mollò.
«No e, anzi, osai saltare nello stile Fosbury, in dorsale. Il problema è che non eravamo attrezzati: ad ogni caduta prendevamo botte terribili».
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Erminio Azzaro divenne il suo allenatore.
«Stiamo insieme da mezzo secolo, abbiamo un figlio, non abbiamo mai smesso di fidarci l'uno dell'altra. Erminio mi prendeva sul serio, cosa che pochi facevano con le atlete. Oggi è diverso, si allenano come macchine programmate per vincere. All'epoca era tutto più improvvisato e la fiducia faceva la differenza. I miei erano contrari al fatto che fosse lui ad allenarmi: si fidavano di Bragagnolo, come tutta la squadra. Io puntai i piedi: o lui o lascio l'atletica. Nessuno replica».
Eccola, la capitana.
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«Javier Sotomayor, primatista del mondo con 2 metri e 45 centimetri, che dichiarò dimensioni di aver “studiato i salti della Simeoni”».
Prima medaglia vera?
«Il bronzo a Roma nel 1974. Poi venne l'Olimpiade di Montreal del '76: argento, unica medaglia italiana nell'atletica in quella competizione. Ma le racconto un dettaglio: nonostante la mia carriera fosse in ascesa ei successi, anche se lentamente, si accumulavano, non mi sentivo sicura. Mi iscrissi all'Isef: non si sa mai, penso. Oggi le atlete sono molto più incoraggiate, vedono la competizione come una vera carriera professionale. Per noi, c'era sempre un orizzonte incerto. Sì, oggi vinco, ma poi, che succederà?».
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Se le dico Brescia, 4 agosto 1978?
«Le rispondo con una parola magica: due-zero-uno, il nuovo record del mondo nel salto in alto femminile, quei due metri che cambiarono la mia vita. Cominciò anche la pressione mediatica: pensi che mi chiedevano di inventarmi qualche love story così, per farmi pubblicità. Io strabuzzavo gli occhi: e se poi nelle interviste sbaglio nome perché mi confondo?, dicevo. Follia.
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Io non riuscivo a saltare senza la solida certezza della mia famiglia, di mio marito accanto a me. Non so come facciano certe atlete di oggi, piene di tormenti sentimentali. Quando saltavo, non saltavano solo le gambe e il dorso, ma saltava Sara, con la sua vita, i suoi affetti, le sue ansie. In quell'anno ho fatto il record del mondo per due volte. Le riprese della gara di Brescia mi arrivarono, pensi, trent'anni dopo, girate da un trentino sugli spalti».
E il bello doveva ancora venire: Mosca, 1980.
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«Quella Olimpiade per me voleva dire una cosa sola: oro. Ero determinato ma spaventata. Una strizza che non le dico, forse perché per la prima volta chiedevo tanto a me stessa. Quando arrivò l'oro pensai che da qualche parte ero arrivato e finalmente mi convinsi che tutti quei sacrifici erano valsi la pena. Però poi, ad Atene, mi feci male e imparai, con amarezza, che quando vinci ricevi grandi telegrammi e la volta che non porti la medaglia d'oro a momenti manco ti salutano».
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Ma perché la Federazione o il Coni non le hanno assegnato incarichi più prestigiosi, secondo lei?
«Boh, forse perché non ho mai coltivato le amicizie giuste. Ma va bene così, da un po' è iniziata la mia terza vita». In televisione.
I Mondiali commentati da lei sono stati uno spasso.
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«Di calcio non capisco nulla, ma così riconoscere lo sport fatto bene. Il Circolo degli Anelli prima e il Circolo dei Mondiali dopo mi hanno dato una grande opportunità, quello di mostrarmi in una veste inedita, una capitana più spiritosa, diciamo. Mi sono divertita e ho imparato tanto. Ringrazio dunque la Rai. Non ho rimpianti. Ho un figlio meraviglioso e un marito che amo come il primo giorno. Quando mi chiedo come si fa a stare mezzo secolo assieme, rispondendo che bisogna pensarsi sempre come una squadra affiatata».
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