Malcom Pagani per www.vanityfair.it
francesca fioretti playboy
E la vita continua anche senza di lui: «Gli amici mi domandano: “Ma il 4 marzo hai dormito?” e io penso che per me è 4 marzo ogni giorno. Quattro marzo quando mangio, 4 marzo quando vado a dormire, 4 marzo quando compro un biglietto di treno, organizzo un viaggio e penso che accanto a me Davide non ci sarà più. Mi è caduta addosso una tragedia, una disgrazia così grande da cambiare per sempre la mia prospettiva sulle cose. È stato un anno straziante, difficile e impegnativo. Non credevo di essere così forte.
Ho dovuto tirare fuori un’energia e un coraggio che non sapevo neanche di avere. Prima che Davide se ne andasse ero soltanto Frà, una ragazza della mia età. Più spensierata che matura. Poi il destino mi ha rapinato. Con un furto mi ha rubato all’improvviso tutto quel che avevo e sono diventata Francesca.Una donna che affronta sfide che non pensava di riuscire a superare».
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Tra tre giorni, Francesca Fioretti festeggerà il suo compleanno numero 34. Il secondo senza un abbraccio, una carezza, una telefonata di Davide Astori. Aspettavano tutti qualcosa, anche nella notte tra il 3 e il 4 marzo 2018. L’Italia in procinto di recarsi alle urne. Davide, pronto a giocare Udinese-Fiorentina da capitano della squadra in viola. Francesca a Firenze, in attesa del suo ritorno. Si era addormentata salutandolo senza sapere che sarebbe stata l’ultima volta. Arrivederci amore, ciao. Di quella domenica mattina, Francesca rifiuta di fissare i dettagli. Sa che era con Vittoria, la figlia che nelle foto dei tempi felici lei e Davide tenevano per mano osservando il mare all’orizzonte. Francesca le aveva comprato un personaggio delle fiabe. Sulla porta di casa le dissero che Davide avrebbe dormito per sempre. Senza lieto fine, consolazione, principi o principesse.
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Quando Francesca parla, Davide rivive. Non «era», ma «è». L’imperfetto renderebbe meno sopportabile il presente: «Per me», spiega, «parlare di Davide al passato è impossibile». Collocarlo nel ricordo non darebbe senso a pause e dolore. Francesca non vuole la compassione di nessuno, ma ogni tanto si ferma per riprendere fiato. Francesca vuole ricominciare, ma se prova a trattenere il pianto, le si riempiono gli occhi di lacrime e sembrano dilatarsi. Beve un caffè, non fuma e non riesce più a incontrarlo, neanche in sogno: «Non mi è mai capitato», dice. Si capisce che le dispiace. «Penso spesso a come si sarebbe comportato lui al mio posto, a come avrebbe fatto con il suo lavoro, al suo possibile addio al calcio. Forse avrebbe fatto il padre a tempo pieno perché con Vittoria era bravissimo».
In questo lungo giro di stagioni senza Davide Astori, Francesca Fioretti ha capito soprattutto che non ne esiste una per giudicare: «Ognuno attraversa il dolore a modo proprio, ma non c’è un modo giusto per farlo. All’inizio, avevo paura di tutto. Per molti mesi non ho acceso la tv né ho dormito nella nostra stanza. Mi facevo accompagnare in bagno per lavarmi i denti, temevo di non essere più in grado di gestire mia figlia, ero terrorizzata dall’idea di volerle meno bene. Mi ha aiutato una psicologa infantile. Ci sono andata subito, il giorno dopo la morte di Davide. Ero in confusione totale.
francesca fioretti grande fratello
Lei mi ha aiutato a capire che il 4 marzo era finita un’intera esistenza e che avrei dovuto cominciarne una completamente nuova: “Se ti fa stare bene”, mi ha detto, “manda via tutti”. Le ho dato retta. Ho rassicurato parenti e amici, li ho fatti andare a casa, mi sono isolata e tornando a fare le cose di sempre, lentamente, ho ricostruito la mia stabilità». Francesca è un’attrice. Da ragazza stava sulle punte – «Studiavo danza classica, mi ha dato disciplina, rigore, senso di responsabilità e costanza nel coltivare una passione, ma era quasi un hobby e anche se mi è piaciuto tantissimo, non ho mai voluto fare veramente la ballerina. Di sicuro non speravo di arrivare alla Scala».
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Dopo alcune esperienze televisive – «Da giovanissima ho partecipato anche al Grande Fratello, volevo essere economicamente indipendente e anche se non sapevo neanche cosa fosse una bolletta, mi sono trovata a giocare e ho giocato» –, ora recita a teatro. Infatuazione tardiva: «Se all’epoca dei miei vent’anni avessi saputo quanto aspiravo a recitare avrei provato a iscrivermi al Centro Sperimentale di Cinematografia». Il 21 marzo sarà sul palco, al teatro Delfino di Milano, con Lungs di Duncan Macmillan. In scena, la storia di una coppia che si incontra nell’età acerba e invecchia insieme: «Dentro c’è molto della mia vicenda personale». Quando Federico Zanandrea, il regista, le ha proposto il ruolo, Francesca ha detto no: «Pensavo che dopo la morte di Davide non sarei stata in grado di sostenere la parte».
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Poi ha cambiato idea: «Perché anche se è stato tostissimo, in un momento della vita in cui mi è impossibile astrarmi, lì sopra, come per miracolo, ci riesco. Il teatro è stata una salvezza. Mi fa concentrare su quello che sto facendo, su quello che voglio essere, sul piacere di interpretare un testo. Fare 8 ore di prove al giorno mi aiuta a essere integra. Provare e riprovare mi anima, mi riempie di una cosa soltanto mia, mi restituisce il lusso dell’integrità. È il mio motore e il mio piacere. E il piacere nel mio ultimo anno ha rappresentato un’utopia».
Domani è ancora ieri: «Ho poco più di trent’anni e anche se a volte penso che innamorarsi di nuovo sia impossibile, mi auguro ancora di scoprire posti nuovi, ridere e uscire a cena con gli amici. Davide lo incontrai così, per caso, in un locale di Milano in cui non avremmo dovuto essere né io né lui. Mi dissero: «È un calciatore del Cagliari», e io a stento sapevo chi fossero Totti e Maradona. Si fece dare il mio numero. Iniziò a scrivermi.
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Cercavamo serenità e l’abbiamo trovata insieme. È arrivato nel momento giusto, Davide. Se lo avessi incontrato più giovane, quando sei irrequieta e insegui solo l’amore che provoca tormenti e sofferenza, non avrebbe funzionato. Anche se ormai ho smesso di chiedermi perché sia successo proprio a noi e so che non ci sono risposte, mi consolo pensando che eravamo felici. Non avevamo litigato. Non vedevamo l’ora di rivederci. Dopo quella cazzo di partita ogni cosa avrebbe ripreso il suo corso».
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Il 4 marzo, a San Pellegrino, c’è stata la prima delle commemorazioni pubbliche di un mese più crudele dell’aprile immaginato da Eliot. Memoria e desiderio si confondono anche qui anche se non di rado la vita è più prosa che poesia: «Si è tenuta alle 8 di mattina e a quell’ora portavo Vittoria a scuola. Sono arrivata a funzione conclusa e nel primo pomeriggio, senza telecamere in chiesa, sono andata con suo padre e tre familiari a ricordarlo. Hanno scritto “la compagna non c’era” e si sono permessi di insinuare cose spiacevoli, di dire quello che avrei dovuto o non dovuto fare. Ma non mi hanno ferita perché a questo sistema, al “non so niente, ma giudico comunque”, anche se con fatica, ho fatto il callo».
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A Francesca interessa battersi per altro. Il principio, più del caso personale. Il generale, più del particolare. Non si sente eccezionale e non vorrebbe neanche esserlo. Ma, dice: «Sono sicura che se fossi stata la moglie di Davide, in un Paese in cui le coppie di fatto sono trattate come abusive, le cose sarebbero andate diversamente e non mi avrebbero mancato di rispetto.
Mi sono accadute cose kafkiane. A poche ore dalla morte di Davide sono state bloccate le carte di credito in comune, con le quali sostenevamo le spese familiari, e ho scoperto che per i prossimi 15 anni avrei dovuto avere a che fare con un giudice tutelare. Io sono stata veramente fortunata. Ho incontrato una donna saggia e illuminata che si è resa conto del percorso di tutela, del cordone di protezione che avevamo recintato intorno a Vittoria.
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Ma se penso che altre donne rischiano di trovarsi a stretto contatto con una burocrazia complessa o con persone che potrebbero applicare le regole di una tabella impersonale senza andare in profondità mi vengono i brividi. Ho sempre lavorato e guadagnato, ma penso ai tanti che si trovano nella mia situazione e ai quali non è riconosciuto alcun diritto. Non voglio essere un esempio per nessuno, ma se la mia storia dovesse servire veramente a qualcuno, spero aiuti a cambiare la legislazione. A non far trovare nella merda chi resta solo da un momento all’altro. E a non distinguere tra amori di serie A e di serie B. Matrimonio non è l’unica possibile definizione di un’unione».
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Francesca vive a ondate: «A istanti, a giornate, a minuti. Non riesco a fare progetti. A tratti mi sembra che stia migliorando tutto e il minuto dopo cado. Parlo molto con mia figlia, cerco di formarle dei ricordi, voglio che lei un giorno sia libera di andare per la sua strada e pensi: “Però, che mamma cazzuta che ho avuto”. Se rifletto razionalmente su quel che mi è successo ancora non ci credo e penso ancora non sia vero. Se sai che un tuo caro è malato ti poni un obiettivo e lotti anche se non raggiungi ciò che speri. Io questo privilegio non l’ho avuto e ho dovuto combattere anche con il senso di colpa. Mi sono detta: “E se ci fossi stata? Se quella notte fossi stata accanto a lui?”. Poi mi rispondo che se non me ne fossi accorta sarebbe stato anche peggio.
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La prima domanda che ho posto alla psicologa infantile è stata: “Ma la ferita si rimarginerà?”. “È una cosa molto soggettiva”, mi ha risposto. Ci sono molti stadi del lutto. I luminari sostengono che ci vogliano due anni e io mi chiedo: “due anni per fare che cosa?”, “dopo due anni che succede?”. Non lo so. Chi è che decide qual è il momento giusto per tornare a ridere o a scherzare? Per molto tempo, un tempo che dura ancora, ho creduto di non averne il diritto. Non riesco ad avere un controllo totale sui miei sentimenti. Perché forse puoi abituarti all’idea dell’assenza sforzandoti persino di accettarla. Ma non la capirai mai».
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Francesca si tormenta le dita e quando schiocca le nocche fa un rumore anomalo, come di ossa che si rompono e poi lasciano un eco sordo. Incollare e ricostruire sono diventate le sue missioni. Ha traslocato a Milano, ha segnato con il pennarello quello che contenevano le scatole e ora si augura di scrivere una storia nuova, anche negli occhi degli altri: «Chi mi vuole bene non mi asseconda e mi osserva come mi guardava prima del 4 marzo, altri lo fanno con compassione.
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Mi scrutano come se avessi una malattia e sembrano gli stessi che avevo davanti nei primi giorni. Occhi vuoti, che non sapevano dirmi niente, neanche “mi dispiace”. Occhi che a volte mi trovavo a rincuorare io. Per me non vorrei niente di più di quel che avevo prima, ma spero solo che gli altri non vedano eternamente davanti a loro la sagoma di una vedova disperata. Ho bisogno di tornare a vivere per Vittoria, che è il centro della mia vita, e ho bisogno di farlo anche per me stessa. Non voglio essere una di quelle madri che fa pesare ai figli il dolore che ha dovuto sopportare, né una di quelle donne incapaci di reagire all’infelicità».
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E tu/ chissà dove sei/ anima fragile: «Non so se esistano davvero posti belli o brutti, ma se ce ne sono di belli, Davide, per come era, si trova sicuramente lì». A volare quando ne valeva la pena: «Il primo figlio me lo chiese lui, “Il secondo però me lo chiedi tu”». A nascondersi quando il rumore intorno si faceva insopportabile: «Davide, il ricordo di Davide, è diventato un po’ di tutti e io sono contenta che la sua memoria sia viva. Sento dire da tutti che era un uomo eccezionale ed è vero, lo era. Ma era anche riservato e non sono certa che tutto questo casino mediatico intorno alla sua figura in cui chiunque dice la sua gli avrebbe fatto piacere. Era un calciatore. Un bravo calciatore. Uno che si voleva mostrare soltanto attraverso la sua professione, che custodiva sacralmente il suo privato e che era tutto tranne che un animale social: “Franci, ho aperto un profilo Instagram”, mi disse un giorno, “poi l’ho chiuso”. Davide preferiva la vita reale a quella virtuale».
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Questa è la seconda intervista che Francesca concede in un anno. Non è mai stata in tv. Non ha mai concesso agli altri la camera con vista sul proprio dolore: «Perché non volevo mettere in piazza la mia sofferenza e anche Davide sarebbe stato d’accordo con me». Gli uomini, gli altri uomini, dice rivelando un sorriso inatteso, si tengono alla larga: «Mi domanda se ci provano? E chi si accollerebbe ’sto problema? È difficile avvicinarsi a una come me, penso di spaventare e guardo le cose con più disincanto di ieri. Si è affacciato il cinismo. Un anno fa non sapevo neanche cosa fosse». Ora Francesca è in piedi. Lontana dalle emozioni che li univano. Da tutte quelle piccole emozioni che bastavano. Davide preparava la borsa e usciva di casa. Ogni tanto non c’era. Ieri come oggi. «In questo io e Vittoria siamo abituate bene», dice e le si disegna un sorriso che è il manifesto del pudore.
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