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    NO TENNIS, NO BARTY – L’AUSTRALIANA ASH BARTY SI RITIRA A 25 ANNI DA NUMERO 1 AL MONDO: "HO DATO TUTTO, ORA VOGLIO INSEGUIRE ALTRI SOGNI” - NEL 2014 SI ERA INCEPPATA UNA PRIMA VOLTA PER LE PRESSIONI: DOPO MANCIATE DI ANTIDEPRESSIVI, ERA TORNATA SUI CAMPI, LONTANA DAI DIVISMI DI SERENA WILLIAMS E DALLE ANSIE DI NAOMI OSAKA – LO PSICOLOGO: “LA NUOVA GENERAZIONE DI ATLETI NON POSSIEDE LA CORAZZA NECESSARIA PER SOSTENERE QUESTE GRANDI ATTENZIONI DI MEDIA E SPONSOR" - VIDEO


     
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    Stefano Semeraro per “la Stampa”

     

    Ashleigh Barty, la regina timida del tennis è scesa dal trono e ha salutato il suo mondo. A 25 anni, senza drammi. Senza farsi distrarre dal fruscio dei post e dei tweet pieni di «wow» e di «clamoroso» che atterravano sui social. Lo ha fatto da numero 1, come Justine Henin nel 2008, e alla stessa età di Bjorn Borg. Un addio d'altri tempi, quando lo sport anche per i fuoriclasse era una stagione breve, non occupava un'intera esistenza. E soprattutto non riempiva il conto in banca con una mano, svuotando l'anima con l'altra.

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    All'amica del cuore ed ex compagna di doppio Casey Dellacqua ha spiegato che si ritira perché dal tennis ha ottenuto tutto. Anzi, quanto basta: il numero 1 per 121 settimane, tre Slam, Wimbledon compreso, 15 tornei in singolare e 12 in doppio, 23 milioni di dollari di montepremi. Di continuare a girare il mondo per ritoccare qualche statistica, sorry, non se parla neppure. «Non ho più la spinta necessaria, fisicamente non ho più niente da dare.

     

    Sono felice, e questo è il mio successo». È stata una bambina prodigio, la ragazzina «aussie» con la faccia da monella svelta e il braccio incantato, nipote di una aborigena della gente Ngaragu, figlia di due golfisti neanche male, nata per inseguire e colpire una pallina. Sul campo a quattro anni, ha iniziato presto a collezionare trofei. Tanto che il suo coach Jim Joyce un giorno gliene buttò qualcuno nella spazzatura: «ne vincerai di più importanti».

     

    Campionessa Under 18 a Wimbledon a 15 anni, doppista sublime, nel 2014 si era inceppata una prima volta: colpa di chi le aveva disegnato davanti un futuro troppo veloce. Molte pressioni, manciate di antidepressivi. La cura sono stati i due anni passati fuori dal tennis a giocare a cricket con le ragazze di Western Suburbs, neanche a dirlo miglior battitrice della squadra. A ripescarla, nel 2016, ci ha pensato Casey: «ehi, sorella, nel tennis hai un lavoro da finire».

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    Non ci ha messo molto. Il Roland Garros e il numero 1 nel 2019, Wimbledon nel 2021, gli Australian Open - lo slam di casa che nessuna australiana vinceva da 44 anni - dominato a gennaio senza perdere un set. Ash finalmente ha seguito le sue vie dei canti, si è raccontata la storia che voleva lei, non quella che le sussurravano gli altri. Quando nel 2020 ha perso malamente in semifinale a Melbourne si è presentata in sala stampa con in braccio la nipotina di 11 mesi, Olivia. Messaggio chiaro: una sconfitta non è la fine del mondo, la vita è altrove.

     

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    Lontano dai divismi di Serena Williams, dalle ansie che erano state sue e che oggi bloccano Naomi Osaka e altri campioni fragili. Durante la pandemia «Ash» è rimasta in Australia anche dopo la ripartenza del circuito. È rientrata quando se l'è sentita, da numero 1. Ha completato il viaggio. «La vittoria a Wimbledon mi ha cambiato molto, come persona e come atleta. Era il vero obiettivo della mia vita, eppure ho sentito che mi mancava qualcosa. Poi è arrivato l'Australian Open, la maniera perfetta per celebrare la mia carriera. Qualcuno non comprenderà, lo capisco. Ma ho tanti altri sogni, e non prevedono di viaggiare rimanendo lontana dalla famiglia e da casa. Non smetterò mai di amare il tennis, ma ora voglio godermi il prossimo capitolo». Lo scorso novembre si è fidanzata con Gary Kissick, golfista come i suoi genitori, sente forti e profonde le sue radici nella comunità dei nativi australiani, di cui è ambasciatrice. Per la campionessa olimpica Cathy Freeman «è un modello straordinario. Testa sulle spalle, molto attenta alla sua comunità, non troppo legata al successo. Meravigliosa». Anche nel capire che i trofei di cui parlava il suo vecchio allenatore non si vincono solo sul campo da tennis.

     

     

    LO PSICOLOGO CEI

    Da Il Messaggero

     

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    Alberto Cei, psicologo dell'Università San Raffaele di Milano, ci aiuta a decifrare il ritiro di Ash Barty. E' questo l'addio ideale di un campione?

    «Una volta era così, si diceva che bisognava lasciare quando si era al vertice. Oggi, pensando per esempio a un Buffon che per continuare accetta di giocare in serie B diciamo che, lasciando lo sport, i campioni hanno un po' l'idea di perdere anche se stessi e quindi continuano. Proprio perché provano ancora piacere e dimostrano tanta passione. Cosicché anche il mondo esterno valuta questo prolungamento della carriera in modo diverso rispetto al passato».

     

    Tanti campioni si dimostrano fragili: lo sport è diventato troppo duro?

    «L'attività è rimasta quella, ma è molto più difficile per l'esposizione pubblica, per la necessità di corrispondere alla forte e continua domanda che gli arriva dalla gente e dagli sponsor. Tutti vogliono da te e non è facile avere un auto-controllo.

     

    Questa è la prima generazione di sportivi che vive questa sollecitazione in modo così violento: prima c'era solo Borg, nel tennis, oggi, con questi campioni a livello planetario - come li chiamo io -, tutti sanno chi sei e questi atleti non possiedono spesso la corazza necessaria per sostenere queste grandi attenzioni».

     

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     Il numero 1, Nadal, si porta sempre dietro nei tornei parenti ed amici: i campioni planetari hanno bisogno della casa e della mamma?

    «Alla fine sì: padre, madre, fratelli, e anche amici, come Valentino Rossi: sono i personaggi decisivi per la serenità dei campioni, la rete di persone di cui sanno di potersi fidare. Più sono vincitori seriali, più hanno pressioni, più necessitano di questo bisogno emotivo da parte di queste persone che gli ricordano casa. E così se le portano dietro più che possono».

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