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    NOI CROATI, "FORGIATI DALLA GUERRA" - MANDZUKIC PROFUGO IN GERMANIA, SUBASIC CHE DEDICA LA FINALE ALLE “MADRI DI SREBRENICA” E IL “RIFUGIATO” LUKA MODRIC COL NONNO UCCISO A FUCILATE DAI SERBI E LA CASA DEVASTATA DALLE BOMBE CHE DIVENTA IL CENTROCAMPISTA PIÙ FORTE AL MONDO - UNA GENERAZIONE SOPRAVVISSUTA AGLI SPARI SOGNA DI TORNARE A CASA CON LA COPPA IN MANO - VIDEO


     
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    modric modric

     

    Giacomo Talignani per www.huffngtonpost.it

     

    Chissà cosa pensava il rifugiato Luka Modric quando tirava pallonate contro il muro di uno sgangherato cortile dell'Hotel Iz. Aveva 6 anni e suo nonno era appena stato ucciso dai serbi. Fuori le granate, la guerra, la frenesia di una famiglia che si spostava da uno ostello all'altro per scappare dai predoni, dentro invece solo il suo piccolo universo: forse, come ogni bambino che calcia un pallone, anche lui sognava di vincere un giorno la Coppa del mondo.

     

    Quando la sua Croazia scenderà in campo a Mosca per affrontare la Francia, prima finale del suo Paese, si porterà ancora dietro la volontà e la forza di quel bambino gracile di allora, che aveva una sola occasione, ancora senza saperlo: i suoi due piedi. E oggi, destino, l'ha sfruttata tutta, fino a diventare il campione che conosciamo.

     

    La storia di Modric, croato classe 1985, inizia con le stesse paura di milioni di rifugiati che oggi abbandonano i loro paesi in cerca di un futuro migliore, schiacciati fra guerre e povertà.

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    Nato a Zara da padre meccanico militare e madre lavoratrice nel tessile quel piccolo biondo e gracilino aveva un legame fortissimo con il nonno. Modric senior allevava bestiame, lo fece fino a quel giorno - 18 dicembre del 1991 - che salì su dai campi del monte Velebit, lì dal borgo Modrici, per tornare a casa. Non scese mai più: fu ucciso a fucilate dai serbi durante la guerra indipendentista in Croazia negli anni Novanta.

     

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    La casa di Luka fu devastata dalle bombe, circondata da mine che ancora oggi avvertono dei pericoli intorno. La famiglia Modric scappò verso Zara, appoggiandosi per mesi e mesi di ostello in ostello, dall'Iz all'Hotel Kolovare, quelli che venivano organizzati in gran fretta per ospitare migliaia di rifugiati. Con lui, vestiti a parte, non aveva praticamente nulla se non un pallone: ogni giorno scendeva - smilzo e piccolino - in un cortile dietro ad un ostello dove era alloggiato per tirare la palla contro il muro. Chi lo osservava, racconteranno poi documentari croati e internazionali sulla sua vita, dice che "rompeva più finestre lui con un pallone che i serbi con le loro bombe". Fu allora che imparò a dribblare le difficoltà della vita, anche se oggi di quegli anni racconta di non portare più i segni dei traumi.

     

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    Di lui si ricordano bene gente come Josip Bajlo, allenatore allora della prima squadra del club Nk Zadar. Lo cercò. "C'era qualcosa di speciale in quel ragazzino, nonostante il fisico magro e minuto. Avevo sentito parlare di un ragazzino iperattivo che gioca costantemente con un pallone da calcio nel corridoio di un hotel per rifugiati, andando persino a dormire con esso" disse una volta. Poi lo ingaggiò, dando vita a una carriera - in un'epoca in cui i suoi genitori facevano fatica a comprargli i parastinchi - che lo ha visto diventare milionario, vincente, vestire maglie dalla Dinamo Zagabria al Totthenam fino al Real Madrid, essere uno dei migliori centrocampisti internazionali, alzare decine di coppe fino a diventare capitano di una squadra che - forse come sognava un tempo - si giocherà la finale per la Coppa del mondo.

     

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    Fra mille luci però, anche quel fatto indelebile nella testa dei croati, che per molti anni lo hanno odiato, e forse solo il Mondiale sarà in grado di riparare. Nessuno, in un periodo in cui in Croazia si sperava finalmente di ripulire la corruzione dal calcio, gli ha perdonato la testimonianza con quel "non ricordo" a favore di Zdravko Mamic (poi condannato), ex capo della Dinamo Zagabria accusato di crimini e corruzione.

     

    Ma in tanti, al contempo, in Croazia ricordano con ferite indelebili i fatti del 1991-1995 e per certi versi si sentono vicini a quel capitano dall'infanzia difficile. Quello che al primo contratto aiutò la famiglia a comprare un appartamento a Zara, dopo anni passati in rifugi di fortuna. Quello che adesso un documentario del canale Antenna 3 ha voluto ricordare nella storia del bambino scappato dalla guerra che oggi guida il suo Paese verso la Coppa più prestigiosa del mondo.

     

    Come lui, nella Croazia da finalissima, anche Dejan Lovren, nato nella città bosniaca di Zenica nel 1989 e fuggito dalla guerra per stabilirsi in Baviera. Oppure Vedran Corluka, che ancora ricorda il rumore delle granate in Bosnia o Ivan Rakitic, anche lui fuggito dal conflitto dei Balcani quando era piccolo. Tutti bambini, allora, che fra le bombe chiedevano una sola occasione, rotonda come il pallone. Se la sono conquistata, molti di loro, passando per altri paesi e adesso sognano soltanto di tornare a casa con la Coppa in mano.

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    2. SCALATA MONDIALE

    Giulia Zonca per la Stampa

     

    I n finale con la maglia a scacchi bianca e rossa, quella che la Croazia ha indossato solo all' inizio dell' avventura, il 16 giugno con la Nigeria, primo successo in un Mondiale di resistenza.

     

    «Forgiati dalla guerra», in patria la raccontano così, spiegano tutto così, ogni invenzione, traguardo o campione: una nazione di 4,2 milioni di abitanti che produce medaglie in ogni disciplina e ora sfida la potente Francia. Non è merito dei fondi pubblici che aiutano poco, non è merito di un sistema che nel caso del calcio è finito pure in tribunale, è l' effetto della tempra.

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    Il carattere si riflette sul gioco, sui risultati, sulla festa. Ogni 20 anni una prima volta La Croazia è un concentrato di patriottismo difficile da amministrare, impossibile da comprendere in ogni risvolto. Per la prima volta nella loro breve storia possono vincere la Coppa del Mondo e, dal 1958, ogni 20 anni, il trofeo va a chi non l' ha mai toccata prima: Brasile, Argentina, Francia e ora, secondo uno dei tanti teoremi indimostrabili dello sport, spetterebbe a questo piccolo Stato emerso dalla guerra dei Balcani. Sopravvissuto agli spari, diventato adulto in un mondo di libertà e separazioni nette, ostinate, dovute. Non sono storie di altri tempi, è la vita di questa squadra: Modric rifugiato, Mandzukic profugo in Germania.

     

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    Non ci sono precedenti, non ci sono altri esempi, ogni nazionale è ovviamente ancorata alle proprie radici e rappresenta il cambiamento sociale, gioca sempre per qualche eredità, ma stavolta si prova a vincere per una terra che ancora pulsa di guerra. È tutto troppo recente per non essere rimesso in circolo dalla forza di un Mondiale. E allora Subasic, etnia serba, avi ortodossi, prima diventa l' esempio di una generazione non più obbligata a seguire la tossica «linea del sangue», poi l' uomo chiacchierato secondo lo schema Lukaku («quando vinco sono belga, quando perdo sono di origine congolese»).

    Oggi è l' eroe che para i rigori e ha dedicato la finale «alle madri di Srebrenica».

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    «Per le madri di Srebrenica» La Serbia si schiera con la Francia e i tifosi rimasti a Mosca cantano «Crimea is Russia. Kosovo is Serbia», giusto per trovare gemellaggi malati con i padroni di casa e risvegliare gli echi di qualsiasi faida. Era già successo con le aquile albanesi-kosovare fatte volare dagli svizzeri di seconda generazione e stavamo ancora ai gironi, dove tutti erano uguali mentre ora siamo in finale dove vince solo uno. E la Croazia non può fare altro che indossare quella maglia a scacchi, la gente in strada e l' intero governo, uno dei tanti che ha girato a destra in Europa. Tra nazionale e nazionalismo la confusione è facile, ma l' entusiasmo è naturale, splendido come i figli dei giocatori in campo per la festa al posto dei genitori stravolti. Tra meraviglia, passato e autodeterminazione, il limite balla sempre sulla linea del fuorigioco.

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