1 - CHIUDE IL MIGLIOR RISTORANTE AL MONDO
Alessandra Dal Monte per il “Corriere della Sera”
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Novembre 2013, il Time esce con una copertina che farà la storia: «The gods of food », «gli dèi del cibo». «Le persone che influenzano cosa (e come) mangiate» sono David Chang, René Redzepi e Alex Atalà. Quasi dieci anni dopo, Chang sta perdendo ristoranti da Toronto a Las Vegas e Redzepi annuncia che chiuderà il celebre «Noma» di Copenaghen, per cinque volte ristorante numero uno al mondo, tre stelle Michelin, capace dal 2003 a oggi di riscrivere la storia della gastronomia mondiale. Prima del «Noma» la Danimarca non esiste: aringhe, patate e, al ristorante, piatti francesi.
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Redzepi, origini albanesi e fame di riscatto, costringe i danesi a usare i propri ingredienti nativi. Una rivoluzione a cascata: dalla «nuova cucina nordica» nascono la nuova cucina peruviana, australiana e così via. Queste gastronomie si consolidano al punto che lo stesso Redzepi non parla più di «New Nordic», ma di «cucina regionale scandinava». Rape, renne e licheni hanno il diritto di stare in un menu: non serve più un manifesto per dar loro dignità.
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Ora, però, tutto questo sta per finire. O, come ha spiegato ieri Redzepi sui social, «sta per trasformarsi radicalmente». Dal 2025 infatti il ristorante non esisterà più. Diventerà «il Noma 3.0: un laboratorio di sperimentazione permanente, alla ricerca di nuovi sapori e progetti dirompenti».
«Una fabbrica di natura», come aveva anticipato a Cook un anno fa. Ci sarà ancora il servizio agli ospiti a Copenaghen, ma solo ogni tanto, quando lo staff avrà trovato abbastanza innovazioni da far assaggiare. Per il resto, la brigata sarà in giro per il mondo a studiare e cercare idee, aprendo qui e là dei pop-up.
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«Così lavorare in un ristorante vorrà dire anche imparare e crescere», scrive Redzepi. Una risposta alle (pesanti) critiche degli ultimi tempi, quando gli è stato contestato di non pagare gli stagisti - prassi appena cambiata, ora è previsto un compenso - e varie inchieste, dal Financial Times al New York Times , hanno raccolto testimonianze poco lusinghiere su cosa significhi lavorare al «Noma». Anni fa, aggressioni verbali e fisiche.
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Ultimamente, compiti ripetitivi, obbligo di non parlare e di non ridere. E tante ore di fatica, almeno 60 alla settimana. Redzepi stesso ha più volte ammesso che questa organizzazione non è sostenibile, né umanamente né economicamente. «Pagare 100 dipendenti, garantire lo standard del cibo e tenere i prezzi affrontabili per il pubblico (una cena, oggi, costa già 470 euro a testa vini esclusi, ndr ) è matematicamente impossibile», ha detto al New York Times . Il 2021 si è infatti chiuso con 230 mila euro di perdite. Il tema, dunque, è riscrivere il funzionamento dei ristoranti di un certo livello. O farli sparire, come sembra aver deciso uno degli (ex?) dèi del cibo.
2 - L’ULTIMA CENA
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Luca Ferrua per “la Stampa”
«Gli chef pretendono una fiducia cieca, quasi fanatica, una schiena robusta e una capacità di esecuzione simile a quella di un automa, in condizioni da campo di battaglia». Le parole sono di Anthony Bourdain, cuoco e scrittore morto suicida, che in Kitchen Confidential ha per primo raccontato la cucina come un inferno, certo più divertente di paradiso e purgatorio, ma sempre inferno. Dopo Bourdain è arrivato Masterchef e il cuoco, anzi lo chef come se questa parola ammantasse ogni cosa di carisma e sintomatico mistero, è diventato un mestiere sognato.
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Poi ecco la pandemia e in tanti hanno scoperto che fuori dai ristoranti, dagli orari massacranti dei weekend, delle feste non vissute, delle notti divorate, c'era una vita e molto spesso economicamente più sostenibile. Così trovare forza lavoro ai fornelli o in sala, il reddito di cittadinanza non c'entra perché il problema è mondiale, è diventato impossibile.
Serve una svolta oppure si chiude. E qualcuno dice basta. Lo ha fatto uno dei più visionari, con Massimo Bottura probabilmente il più influente del pianeta: René Redzepi, del Noma di Copenaghen, scelto a più riprese come migliore ristorante del mondo. Quello appena iniziato sarà l'ultimo anno di vita del suo ristorante, che nel 2024 chiude per diventare laboratorio gastronomico senza più stress di clienti da servire e orari infiniti da sopportare per tenere in piedi un modello economico in palese crisi.
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«Non è più sostenibile quello che facciamo - dice Redzepi -, ho accarezzato questa idea negli ultimi due anni, serve una totale riorganizzazione dei luoghi di lavoro e dello staff». Redzepi è un innovatore, la sua non è una resa ma una sfida per rendere il lavoro di cuoco eticamente sostenibile per cogliere la crisi conclamata e viverla come un'opportunità: «Non vedo l'ora di mettere in pratica un cambiamento necessario, per diventare come gruppo più forti e addirittura migliori.
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Questo è lo spirito e l'idea principale a cui stiamo pensando da due anni. Mi sento emozionato ad avere la possibilità di organizzare il nostro futuro, ma cercheremo di capire le modalità di ristrutturare e riprogrammare la squadra». Il team è sempre stato il cuore di un ristorante leggendario dove erano in molti a lavorare gratis pur di imparare al fianco di Redzepi, anche questo è un modello andato in crisi in un mondo dove la qualità della vita viene, finalmente, prima di tutto. Una modalità che lo stesso Redzepi ha definito come «eticamente insostenibile».
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Siamo alla fine del mondo della ristorazione come l'abbiamo visto fino a oggi? Probabilmente sì. I fattori sono molti e le parole chiave le stesse di questi anni: sostenibilità, qualità della vita, rispetto ed etica. Il clima cambia i menù, il rispetto i ritmi di lavoro, l'etica i salari. E il modello va rivisto. In Italia non ci sono casi emblematici di ristoranti chiusi per scelta, ma di cuochi che hanno cambiato vita ce ne sono eccome.
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Il precursore è stato Franco Aliberti, stellato, allievo di Ducasse e Bottura, capace di lasciare tutto per fare il papà: «Ho deciso che d'ora in poi il mio lavoro principale sarà fare il papà e prendermi cura della mia famiglia. Non ne potevo più di vedere crescere mio figlio solo dallo spazio che occupava nel lettino mentre dormiva. Mi stavo perdendo troppe cose. E non credo sia giusto». Manca il tempo, probabilmente il valore più grande, ma mancano anche le risorse per dargli valore.
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Lo ammette senza mezzi termini Philippe Léveillé del Miramonti l'altro: «Faccio i colloqui per il mio ristorante personalmente e sento situazioni assurde. Se non possiamo permetterci di pagare i ragazzi come si deve è meglio dirlo subito piuttosto che far credere che si può sognare quando in realtà così non è. Se prendo qualcuno devo potergli garantire uno stipendio decente, non sfruttarlo dandogli cifre che fanno ridere i polli. C'è un mondo della ristorazione che deve fare mea culpa e chiedersi se con i ragazzi si è davvero comportato bene».
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Un punto di non ritorno in un mondo in cui sono in pochi, a cominciare dai clienti, a dare il giusto valore a quello che arriva nel piatto, a chi lo prepara, a chi lo serve a tavola, a chi lo consegna a casa in bici, a chi lo raccoglie nei campi. Un mondo da ripensare, da rivoluzionare con coraggio e senza paura per governare il cambiamento ed evitare di subirlo. -
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