Marco Giusti per Dagospia
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I cinque nuovi episodi di “Black Mirror”, che sono su Netflix, ribadiscono l’ossessione dello showrunner Charlie Brooker e di tutto il cinema attuale per i multiversi, le vite parallele, la mancanza di ogni privacy rispetto alle stesse piattaforme che ti succhiano la vita e la risputano come vogliono, la dipendenza dalle narrazioni costruite dagli algoritmi e dalle intelligenze artificiali, la ricerca di una qualsiasi anomalia rispetto a una vita fatta di ripetizioni controllate chissà da chi.
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“Black Mirror”, sesta stagione, con episodi diretti da giovani e bravi registi, Jophn Crowley, Sam Miller, Ally Pankiw, Uta Briesewitz, Toby Haines. Il tema generale sembra essere una sorta di critica alla società costruita da piattaforme come Netflix, qui ribattezzata Streamberry, che con una firma digitale possono entrare nella tua vita, riproporla come serie tv , come nel primo episodio “Joan Is Awful” con Annie Murphy e Salma Hayek, e farne cosa vogliono.
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Salvo pensare che la tua stessa vita è una imitazione alla Netflix della vita di un altro, secondo un modello infinito di ricostruzione narrativa a sua volta ripetibile di quel che gli algoritmi ci indichino quale sia la vita da seguire da spettatori e possibili protagonisti. Nel secondo episodio vediamo una giovane coppia di registi cerca di costruire un docu-drama storico per Streamberry-Netflix (racconto nel racconto) nella cittadina inglese dove si sono svolti anni prima terribili delitti seriali con torture e sevizie.
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In questo caso la ricostruzione stessa degli avvenimenti, costruita con metodi di riproduzione d’epoca e vecchi vhs casalinghi, porterà a una nuova terribile verità. Ci si spinge oltre nel terzo episodio, molto originale, dove due astronauti in orbita nello spazio hanno una vita da alias sulla terra con dei loro cloni.
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Più che una sorta di “Ai confini della realtà”, mi sembra che “Black Mirror” giochi sui cambiamenti che ci hanno segnato dagli anni del vhs in poi, che per noi sono grandemente anni berlusconiani o post debordiani (“la morte di Berluconi è la morte degli anni 80” ha detto giustamente Carlo Freccero), e che arrivano facilmente alle nuove logiche della tv delle piattaforme invadenti, dello spettacolo che ti prende la vita proprio mentre la vivi.
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Rientrano in questo discorso anche i primi due episodi di “The Idol”, Sky, odiati da tutta la critica, che sembrano capovolgere la logica femminista della regista, la Amy Seimetz di “The Girlfriend’s Ecperience”, che il produttore Sam Levinson ha rimosso, con l’aiuto di “The Weeknd”, per imporre uno sguardo maschile sull’intera storia.
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Anche se, oltre a non sapere come la storia si svilupperà, e quindi parliamo tutti un po’ a cazzo, su, pure in questo caso mi sembra di leggere nelle prime due puntate che tutti abbiamo visto una pur facile critica alla manipolazione della vita delle star in chiave di ripetizione narrativa dove una cantante vale l’altra indifferentemente. E quel che si costruisce può ancor più facilmente che ai tempi di Judy Garland o Janis Joplin essere distrutto da una fotografia sbagliata sui social.
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