Jaime D’Alessandro per “la Repubblica”
netflix esquivale ad accidia
Una mappa costruita usando quindici diversi algoritmi. Analizza in tempo reale ciò che guardano, fra film, cartoni e serie tv, oltre 80 milioni di persone in 190 paesi. La matematica al tempo dello streaming, quando diventa rappresentazione grafica, è ipnotica. Carlos Gomez Uribe, vicepresidente di Netflix, sorride mentre ci mostra la mappa. In una sala della Cité du Cinéma, a Parigi, chiede l’indirizzo mail al quale è associato il nostro account. Lo inserisce e la mappa si popola di zone luminose. Rappresentano la concentrazione di spettatori che hanno gusti simili.
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Non solo e non tanto le coincidenze nella scelta del catalogo, quanto i modi, i tempi e in generale il profilo di spettatore. Scopriamo così di far parte di una comunità numerosa in Europa e ben rappresentata sia sulla costa est sia sulla costa ovest degli Usa. Con i nostri stessi gusti ce ne sono tanti in Centroamerica fra Colombia, Venezuela e Costa Rica; e a Oriente, Dubai e Kuwait, Mumbai e Bali. Ma soprattutto in Nuova Zelanda. «Già», commenta Uribe, «ora possiamo vedere in diretta il formarsi di nicchie trasversali e invisibili fino a poco tempo fa». E questo permette a Netflix di produrre, con un margine di errore più basso, serie, film e cartoni sapendo che lì fuori, fra Bali e l’Italia, li vedranno.
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«È vero, gli strumenti che oggi abbiamo a disposizione permettono di disegnare un profilo degli spettatori prima impossibile», conferma Andrea Scrosati, il vice presidente di Sky dietro a successi come Romanzo Criminale, Master Chief, X- Factor e Gomorra. «Peccato che non permetta di capire dove andrà il gusto del pubblico, altrimenti il mercato sarebbe già cambiato. Nonostante i big data di Hulu, Amazon e Netflix, a Hollywood il tasso di fallimento delle serie tv è rimasto immutato e solo due su dieci ottengono dei risultati apprezzabili.
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Oggi in America vengono prodotte ogni anno 450 serie. Sono decuplicate rispetto al 2006. Se si aggiungono quelle di altri paesi, si arriva a un numero che supera le ottocento produzioni. Ma è una bolla. La creatività è fatta di elementi imponderabili e porta a quei successi capaci di intercettare le tendenze prima che si manifestino. Costruire a tavolino un film usando i big data significa costruirlo sulle tendenze che sono parte del presente o peggio del passato». Insomma, gli exploit di Lo chiamavano Jeeg Robot, il film di Gabriele Mainetti, non nascono dai numeri. Così come quello internazionale di Gomorra.
Altrove la pensano diversamente. Nel campo musicale, per quanto sia altra cosa rispetto a quello cinematografico e televisivo, iniziano a sostenere di avere per le mani la stessa arte che fu degli oracoli. La musica è sempre stata all’avanguardia, nel bene e nel male. È stata la prima a esser travolta dal digitale ai tempi di Napster e la prima ad aver visto l’affermazione di colossi hi-tech come Apple e il suo iTunes, che per altro pare sia ormai in piena crisi a causa dello streaming.
GOMORRA LA SERIE TV
Altro fenomeno nato in questo settore, con i suoi cataloghi immensi consultabili da smartphone per pochi euro al mese. Ed è sempre qui che stanno applicando la predizione basata su algoritmi e apprendimento delle macchine. «Ora sappiamo dove nascono i successi di domani».
Jason Titus, vice presidente di Google, qualche mese fa ne parlava così ad esempio. Quando pronunciò questa frase davanti a un giornalista di The Atlantic, lavorava ancora a Shazam, servizio nato a Londra e usato ogni mese da cento milioni di persone per riconoscere una canzone che si sta ascoltando per caso, poco importa se a casa di qualcuno o alla radio. Quindici miliardi i brani identificati con la sua app installata in cinquecento milioni di telefoni.
lena headey in game of thrones
Adesso ha iniziato a offrire alle case discografiche uno strumento per capire in anticipo quale sarà il prossimo successo commerciale. Lo fa guardando al passato: l’analisi degli ascolti messi a confronto con quel che è accaduto nel corso degli anni. Ricordate ad esempio Royals, la canzone con cui Lorde si è fatta conoscere?
Nel 2013 apparve dal nulla, o meglio dalla Nuova Zelanda che è il suo paese natale, e pian piano si diffuse fino a diventare la più ascoltata in tremila città americane. L’anticamera di un successo planetario. In un mondo dove solo l’uno per cento degli artisti rappresenta il 77 per cento degli introiti delle case discografiche, quindi con un tasso di “fallimento” ben più alto di quello delle serie tv, i miracoli dei big data fanno gola.
Per capire come davvero stanno le cose chiamiamo Brian Whitman. Dottorato al Mit, trentacinque anni, è il cofondatore di Echo Nest, piattaforma di analisi dati legati all’industria musicale acquisita da Spotify per centoventicinque milioni di dollari nel marzo di due anni fa.
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Oggi è a capo della divisione ricerca e sviluppo per il colosso dello streaming di Stoccolma, lo stesso che ha appena annunciato di voler iniziare a produrre serie tv; ed è anche lui convinto che la matematica, unita all’enorme quantità di dati che condividiamo e alla musica e ai video che consumiamo, stia dando vita a una forma predittiva di tecnologia sfruttando le tecniche dell’apprendimento delle macchine che, in questo caso imparano con il tempo divenendo sempre più precise nell’analisi delle abitudini delle persone e nei consigli che riescono a dare.
«Per capire i gusti musicali di qualcuno e offrirgli i brani che non conosce ancora ma che sicuramente gli piaceranno, serve circa una settimana», spiega dalla sua casa di Brooklyn. «Stiamo lavorando per accorciare i tempi. Abbiamo iniziato a incrociare i dati presenti sui social network scoprendo che alcuni aspetti personali, l’inclinazione politica per dirne una, sono determinanti. Oppure se si possiede un iPhone o un Android. Oltre ovviamente al sesso, l’età, al paese di provenienza».
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Le ipotesi di Brian Whitman nascono dalle informazioni che arrivano da una base di utenti di cento milioni di persone che ascoltano musica in tutto il mondo. Ed è sempre grazie alla stessa base che vengono confermate. Fino ad arrivare a una mappa dei consumi musicali in continua evoluzione, ben oltre le classifiche dei brani più in voga, e a una capacità di previsione delle tendenze a breve termine. Ma è un miracolo che accade solo nel settore musicale.
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Da questo punto di vista Scrosati ha ragione: malgrado Amazon abbia in mano i dati di milioni di lettori non ha ancora pubblicato il romanzo perfetto, né Netflix il film che sicuramente farà presa. E poi una cosa è produrre da zero un brano usando quel che dicono gli algoritmi, altro tracciarne in anticipo l’ascesa. Ma resta il fatto che ci stanno provando. Come scrive Pedro Domingos, Università di Washington, nel suo L’algoritmo definitivo (Bollati Boringhieri), questo è un settore che sta progredendo a ritmi esponenziali. Oltre a farsi sentire potrebbe iniziare a farsi vedere.