FABRIZIO ACCATINO per la Stampa
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Lo spartiacque dell'esistenza di Piero Chiambretti porta la data del 15 marzo 2020, giorno del suo ricovero d'urgenza in ospedale insieme alla mamma Felicita, entrambi colpiti dal coronavirus. Lui ne è uscito, lei no. Da quel momento, il conduttore si è chiuso in un doloroso riserbo. Oggi, dopo più di tre mesi, torna all'ospedale Mauriziano di Torino, dove è stato ricoverato e dove si è spenta sua mamma, per partecipare a una celebrazione laica dedicata alle vittime del Covid-19.
Sarà un modo per ricordare chi non c'è più, ma anche per riabbracciare medici e infermieri. «Sono stati loro a contattarmi, gli "angeli del pronto soccorso" - spiega Chiambretti - non avrei potuto e voluto mancare.
Quelle donne e quegli uomini sono la dimostrazione vivente di quanto sia assurdo tutto ciò che si racconta in giro sulla sanità pubblica». Su quei giorni terribili preferisce non tornare: «Non amo rendere pubblico quello che è privato. Dietro quelle due settimane in ospedale ci sono la malattia, la morte di mia madre, il senso della vita che è cambiato, il ripensamento delle mie scelte professionali.
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È stata un'esperienza troppo personale, troppo dolorosa per farla diventare un fenomeno da baraccone.
Pensi che la Mondadori è arrivata a chiedermi di scriverci su un libro». E lei che cosa ha risposto? «Voi siete pazzi».
Qual è il senso che ha dato a tutto quanto è accaduto negli ultimi mesi?
«La vivo come una maledizione divina. In fondo ce lo siamo meritati. Qualcuno diceva che questa pestilenza avrebbe messo le cose a posto, ci avrebbe fatto diventare più buoni. Direi che non è successo. Non so nemmeno quanto abbiamo imparato davvero da questa lezione».
Sui due mesi di quarantena forzata che ha vissuto il nostro Paese lei che posizione prende? Prima la salute o prima l'economia?
«Beh, io sono di parte, visto quello che mi è successo. Per me le misure adottate erano sacrosante, anzi, le avrei persino prorogate. Forse c'è stata un po' di confusione nella comunicazione fra il governo, la Protezione civile e i cittadini, ma è un problema che in parte giustifico. Una situazione come quella che si è creata era talmente inedita che ha reso impreparati persino i professionisti».
Come le sembra la ripartenza?
«Lenta, ma era prevedibile. L'importante è andare avanti, anche di poco. Certo, la strada sarà molto dura, le previsioni per l'autunno parlano di nove milioni di disoccupati. Sono cifre da dopoguerra. Ma io voglio pensare positivo, il pessimismo cosmico non ha mai aiutato nessuno».
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E la sua Torino?
«È ferma, come il Paese. Molti negozi non hanno ancora riaperto e molti altri non riapriranno. Avendo una catena di locali, ho vissuto in prima persona lo stop. Abbiamo pensato prima di tutto ai nostri dipendenti: oltre al sostegno dello Stato, noi soci si è deciso di aiutarli di tasca nostra. Il centro si è svuotato, mentre la vita di quartiere ha ripreso forza. Per fortuna il contagio è in fase calante e questo potrebbe mettere in circolo un po' di ottimismo».
Il campionato è ripreso. Lo sta seguendo? E il Toro?
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«Sì, e anche lì le cose non vanno proprio benissimo. La squadra è la stessa dello scorso anno, più un paio di buoni innesti, ma per qualche inspiegabile male oscuro stiamo penzolando sulla soglia delle serie B. Tolti Belotti e Sirigu siamo irriconoscibili. Ogni volta che guardo la partita vivo nel terrore che la squadra abbia un crollo psicologico, buttando via il risultato».
Che cosa la attende in tv?
«Non so se tornerò in tv, e non ho ancora definito con Mediaset i programmi per la prossima stagione. Vorrei che l'anno nuovo portasse vita nuova. Mi piacerebbe fare qualcosa che non ho mai fatto prima, di diverso».
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Per esempio?
«Un programma in prima serata in cui i bambini si sostituiscono agli adulti. Si dice sempre che loro saranno i grandi di domani, ma molte volte sono già i grandi di oggi. Questa di massima sarebbe l'idea. Poi si sa, la televisione è peggio del calcio: tutti i giorni si cambia idea».
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