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    “NON HO VOLUTO MOSTRARE GLI ABUSI SESSUALI” - MARIA SCHRADER, LA REGISTA TEDESCA DI “SHE SAID”, TENTA L’IMPRESA (MEZZA FALLITA AL BOTTEGHINO): RACCONTARE LE MOLESTIE DI WEINSTEIN SENZA MAI FARLE VEDERE – “NON ERA GIUSTO AGGIUNGERE VIOLENZA A VIOLENZA. NON VOLEVAMO CHE L'ATTENZIONE SI CONCENTRASSE ANCHE SOLO PER UN MOMENTO SULL'AUTORE DI QUESTI STUPRI…” - VIDEO


     
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    Stefania Ulivi per il “Corriere della Sera”

     

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    La sfida più difficile, racconta Maria Schrader, è stata non lasciarsi intimidire dalla delicatezza dell'impresa. Riuscire a essere fedeli alla verità, dolorosa, delle testimoni insieme alle necessità artistiche del suo film. La regista tedesca, apprezzata autrice della miniserie Unorthodox, è venuta a presentare il suo Anche io, tratto dalla coraggiosa inchiesta delle croniste del New York Times Jodi Kantor e Megan Twohey, interpretate da Zoe Kazan e Carey Mulligan.

     

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    L'indagine giornalistica che - insieme al bestseller scritto dalle due autrici con Rebecca Corbett, She Said: Breaking the Sexual Harassment Story That Helped Ignite a Movement - ha portato a scoperchiare il vaso di Pandora delle molestie a Hollywood, alla nascita del movimento Metoo e all'incriminazione e alla condanna a 23 anni di prigione per stupro e violenza sessuale dell'uomo che di quel sistema di abusi è diventato un simbolo, l'ex mogul Harvey Weinstein.

     

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    «È una storia vera che ha avuto un impatto straordinario in tutto il mondo. Ogni personaggio del film - in uscita in gennaio con Universal, ndr - è una persona reale. Il New York Times ci ha aperto la sua redazione, deserta per via del Covid, tutti lavoravano in remoto. Era la prima volta che accadeva per un film di finzione. Abbiamo raccontato le storie vere di donne che hanno avuto il coraggio di rompere il silenzio. Abbiamo cercato di studiare il più possibile per non trascurare nulla e farle sentire a proprio agio.

    Ma è un film, non un documentario, le scelte che ho fatto, a partire dal cast, sono scelte artistiche».

     

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    Non è stato facile girare, ammette. «Abbiamo vissuto molti momenti emozionanti, alcune donne coinvolte compaio nel film, sul set avevamo anche dei terapeuti». Le accusatrici di Weinstein sono state invitate a collaborare.

     

    «Ognuna come si sentiva più a proprio agio». Chi con ricostruzioni telefoniche, come Gwyneth Paltrow, altre mettendoci la faccia, come Ashley Judd «che prima ha voluto conoscermi personalmente. Lei è diventata nel frattempo un'attivista, e ha voluto essere con noi anche alla prima proiezione al New York Film festival».

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    Il film racconta dall'interno la nascita dell'inchiesta. Si ferma però davanti alle violenze. Sentiamo i resoconti, non vediamo le immagini.

     

    «Pur raccogliendo le testimonianze non ho voluto mostrare le violenze sessuali. Fin dall'inizio ci siamo chiesti cosa fare. Poi abbiamo pensato che non era giusto aggiungere violenza a violenza. E non volevamo che l'attenzione si concentrasse anche solo per un momento sull'autore di queste violenze. Non sarebbe stato giusto».

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    Rispetto ad altri film dedicati al giornalismo investigativo - a partire da Tutti gli uomini del presidente - Schrader mostra anche il privato delle croniste. «Era importante sottolineare come sia diverso fare certi mestieri per le donne.

     

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    Nel caso di Bob Woodward e Carl Bernstein, gli autori dello scoop sul Watergate, la vita privata non interferiva con il lavoro. Per Kantor e Twohey, come per moltissime donne, invece sì». Il loro primo articolo uscì a tutta pagina sul New York Times il 5 ottobre 2017. Da allora molto è cambiato. «È come se una diga si fosse infranta, spinta dal peso del lungo silenzio, dalla frustrazione. Ha prodotto esiti molto rumorosi e anche confusi. Non giudico. È così che funzionano le rivoluzioni».

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