MARIO DRAGHI GIUSEPPE CONTE
Stefano Folli per “la Repubblica”
Nessuno ha mai creduto seriamente che Giuseppe Conte avesse o abbia ancora in animo di provocare la crisi del governo Draghi. Non che l'ex premier non lo desideri in cuor suo. Il problema è che far inciampare un esecutivo richiede alcune precise condizioni. Lasciamo da parte la questione della guerra in Ucraina come ostacolo suscettibile di paralizzare la vita politica in un paese lontano: in effetti è un argomento poco convincente.
MARCO TRAVAGLIO E GIUSEPPE CONTE
Il punto principale è che i 5S non rappresentano oggi una forza in grado di compiere una scelta così drastica, oltretutto su un tema sensibile come l'aumento - distribuito nel tempo - delle spese militari, previsto nel quadro dell'Alleanza Atlantica. Perché non sono in grado? Primo, perché sono divisi in mille rivoli e il ministro degli Esteri, esponente di primo piano del movimento ex "grillino", è attestato senza incertezze sulla linea pro Nato (e quindi pro Draghi).
mario draghi giuseppe conteu
Del resto, aprire la crisi sulla politica estera e di difesa significa compiere una scelta di campo senza ritorno. Non è credibile infatti che il M5S possa mai più tornare al governo del paese, salvo che ottenga la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento alle prossime elezioni: ipotesi alquanto irrealistica.
Chi rompe con il sistema di alleanze dell'Italia si condanna all'emarginazione, tanto più in una fase di crisi acuta. E a maggior ragione se l'aumento delle spese era stato concordato anni fa in sede Nato, senza che il governo di allora, guidato dal medesimo Conte che oggi contesta quelle decisioni, avesse alcunché da obiettare.
MARCO TRAVAGLIO E GIUSEPPE CONTE
Secondo punto. Il M5S, che conferma la fragile "leadership" del candidato unico Giuseppe Conte con lo stesso meccanismo "on line" già contestato e per il quale sono forse pronti nuovi ricorsi, tende a comportarsi come se fosse realmente il partito di maggioranza relativa in Parlamento, come tale in grado di fare e disfare i governi. Ma non è così e i primi a saperlo sono proprio Conte e i suoi collaboratori.
giuseppe conte mario draghi
Il voto del 2018 appartiene a un tempo remoto e da allora l'Italia è cambiata. È vero, sul tavolo ci sono problemi sociali ed economici immensi, ma le ricette dei 5S sembrano affascinare ormai una porzione sempre più esigua di elettorato. La magia di quattro anni fa è svanita e Conte non sembra il personaggio più adatto per farla rivivere.
Quindi l'ambizione di condizionare il governo Draghi, ricattandolo sulle spese militari, è del tutto sproporzionata alla realtà. Ciò non significa che non esista una contraddizione irrisolta nel rapporto tra l'ala "contiana" dei 5S e l'esecutivo. Non si tratta tanto del rancore, pur evidente, dell'ex premier verso Draghi, perché non è questo sentimento che può determinare un inciampo politico. Ma è vero che una linea dissonante sulla politica estera, tale da attirare - a torto o a ragione - il sospetto di filo-putinismo sul vecchio movimento populista, alla lunga può diventare insostenibile per la maggioranza che sostiene l'attuale premier.
travaglio conte
E lo stesso vale per il centrosinistra che Letta sta cercando di modellare secondo la tradizionale linea, quella per cui l'Italia ha quasi sempre difeso la propria reputazione di leale partner dell'intesa euro-atlantica. Tale reputazione oggi non può essere rimessa in gioco sul piano internazionale. Il che significa che non è Conte a disporre delle chiavi del governo, ma è Draghi che potrebbe decidere prima o poi di liberarsi di un segmento dei 5S.