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    ‘’WHO’’ ARE YOU? - DALL’ALCOL ALLA COCA, DALLE PULSIONI GAY ALLE CORNE CONIUGALI, A 68 ANNI PETE TOWNSHEND RACCONTA COME IL ROCK GLI HA ROVINATO LA VITA


     
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    Giuseppe Videtti per "la Repubblica"

    «Sarei stato un artista e un uomo migliore in un'altra dimensione, come esperto d'arte o musicista d'avanguardia ad esempio. È questa la mia conclusione», sentenzia Pete Townshend. Il leggendario chitarrista degli Who fa il bilancio della sua vita nell'autobiografia Who I am, uscita in Inghilterra l'anno scorso e ora pubblicata in Italia da Rizzoli Controtempo (pp. 496, 20 euro).

    who i am libro di pete townshendwho i am libro di pete townshend

    Nel frattempo nessun ripensamento. «Per me è stato come tracciare una linea che separa due vite, quella di allora e quella di adesso», spiega. Franchezza e sincerità sono gli ingredienti di una buona autobiografia e Who I am è la migliore mai pubblicata da un rocker, insieme a quella di Keith Richards.

    Townshend non lascia punti oscuri, esplora la sua infanzia, racconta le molestie subite da un amante di sua nonna, non fa mistero dell'alcolismo e del vizio della cocaina, confessa le sue inclinazioni omosessuali, svela le ripetute infedeltà coniugali e come nel 2003 finì in manette con l'accusa di pedopornografia.

    Non solo sesso, droga e rock'n'roll, ma le mille difficoltà di trovare un equilibrio all'interno di una band che gli ha dato molto e tolto di più. «È un libro che doveva essere scritto per diverse ragioni», esordisce. «Quella fondamentale è che la mia infanzia e la mia adolescenza mi hanno "preparato" a puntino per una vita da rocker».

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    Alla fine è come andare dallo psicanalista.
    «Non esattamente. In terapia è il paziente che guida la seduta. Quando scrivi un libro vuoi invece che la gente lo acquisti, lo legga e gli piaccia. Volevo solo raccontare la verità. Mi sono avvalso delle testimonianze e delle ricerche di altri biografi, inoltre sono uno che conserva tutto, documenti, lettere, testi di canzoni. Mi è servito anche nel mio lavoro di compositore. I ricordi dell'infanzia sono sempre stati molto vividi, forse perché i miei genitori tenevano un album fotografico aggiornato. Qualche volta è doloroso ricordare, ma volevo fornire il contesto esatto per ogni cosa che mi è capitata. Spero che la mia storia aiuti altri artisti pop e le arti cosiddette minori a sopportare le pressioni del marketing e i rigurgiti della celebrità».

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    Lei è stato un simbolo per più di una generazione. Negli anni Sessanta eravate il gruppo rock più duro e puro. Come ci si sente a essere un eroe?
    «È terrificante; non era mai come volevo io, ma sempre come noi (gli Who) volevamo. Mi sono lasciato trascinare, e alla fine, dopo cinquant'anni, ci ho fatto il callo. E incomincia a piacermi».

    Quali furono le motivazioni che la trascinarono dentro la band?
    «Volevo scrivere canzoni per la gente di West London con la quale ero cresciuto. Eravamo una ciurma post bellica, i nostri problemi erano fuori dall'ordinario, appartenevamo a un paese uscito vittorioso dal conflitto, ma i tempi era durissimi e le esigenze dei giovani totalmente disattese».

    Ha mai avuto il tempo di rallentare e riflettere sulla sua condizione di artista nei primi dieci anni di una carriera fulminante?

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    «Il tempo vola comunque, per tutti. Ma per me era difficile tenere il passo con tutto quello che accadeva. A malapena riuscivo a far coesistere carriera e famiglia, onorare gli impegni, rispettare gli amici. Era una vita d'inferno».

    Ha avuto tutto, successo, gloria, ricchezza, eppure leggendo la sua storia è evidente che l'esperienza degli anni Sessanta è stata una delusione.
    «È così. Non voglio sembrare ingrato o brontolone, la verità è che non mi sono mai sentito in sintonia con chi all'epoca mi girava intorno».

    Cosa la stressava? Il peso del mito era intollerabile?
    «Mai intollerabile, ma certo faticosissimo. Quando sei in una band perdi completamente il contatto con i tuoi fan; una tragedia per me che, come ho appena detto, volevo scrivere canzoni solo per loro, non per Roger Daltrey o per me stesso».

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    Racconta che era Daltrey quello «serio, motivato, forte» anche in quegli anni di follia; vuol dire che è stato una figura paterna o semplicemente il più noioso?
    «Uno e l'altro. Era molto protettivo, non esattamente noioso ma un carattere difficilissimo.
    Aveva però una straordinaria passione per la musica, maniacale direi, per questo la nostra collaborazione è stata proficua nonostante le differenze».

    Vivevate come una famiglia, eppure sembra che non vi conosceste affatto. Ci sono cose dei suoi compagni che ha scoperto decenni dopo - ad esempio che John Entwistle era massone (al suo funerale, nel 2002).
    «Eravamo troppo diversi per confidarci intimamente. John era quello che conoscevo da più tempo, avevamo condiviso sogni e aspirazioni, ma poi arrivò Keith Moon, e la loro diventò un'amicizia esclusiva».

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    Alla fine chi era il suo migliore amico all'interno degli Who?
    «Nessuno. Con Roger ho stabilito un rapporto solo in tempi più recenti».

    Ha avuto amicizie più profonde con altri musicisti?
    «Con Ronnie Lane più di altri. Ma anche con Eric Clapton, Paul McCartney e Elton John: in qualsiasi momento so di poterli chiamare, confidarmi per avere un consiglio sincero. Adoro Mick Jagger, ci siamo frequentati moltissimo. In America mi sento molto con Eddie Vedder, Billy Corgan e E degli Eels».

    Qual è la sua più grande paura ora che ha 68 anni e la saggezza di un nonno?
    «La mia paura è la sua paura, amico mio. Sono stato un "riflettore" per così tanto tempo che non ho più paure mie, mi specchio in quelle degli altri. La gente che mi circonda è terrorizzata dal futuro prossimo. Dal pianeta che va in malora, dal terrorismo, dal fanatismo religioso, dal collasso economico globale. Pensano ai figli più che a se stessi. Il mio lavoro di scrittore di canzoni è quello di metabolizzare tutto questo, dare un conforto o suggerire una soluzione. È quel che la buona musica pop e il grande rock hanno sempre fatto».

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