Paolo Valentino per corriere.it
nord stream
Quando il 26 settembre un’esplosione sottomarina danneggiò gravemente i tubi di Nord Stream I e Nord Stream II, i due gasdotti che collegano la Russia al Nord Europa adagiati sul fondo del Mar Baltico, quasi tutti i Paesi occidentali puntarono l’indice verso la Russia, ipotizzando l’ennesima operazione coperta, mirata a destabilizzare il mercato producendo un aumento dei prezzi.
Mosca, da parte sua, invocando l’assurdità di un atto terroristico ai propri danni, accusò la Gran Bretagna di essere dietro l’attacco. Nessuna delle due accuse era suffragata da alcuna prova. Poca attenzione e commenti suscitò invece un tweet del deputato europeo ed ex ministro degli Esteri polacco, Radoslaw Sikorski, che pubblicò una foto del tratto di mare con la bolla provocata dal gas fuoruscito dai tubi, con il commento: «Thank you Usa», grazie Stati Uniti.
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Sono passati tre mesi. E l’esplosione del Mar Baltico, probabilmente provocata da bombe lanciate da navi o messe sul fondo da sottomarini, rimane un mistero di difficile e forse impossibile soluzione. Soprattutto, nell’era della continua sorveglianza satellitare, nel pieno di una crisi energetica globale e con l’intera Europa in stato di allerta a causa della guerra in Ucraina, appare incredibile come un’imbarcazione o un sommergibile abbia potuto avvicinarsi in incognito all’infrastruttura più controversa dello scontro Russia-Occidente, depositare un ordigno e poi allontanarsi senza lasciare tracce.
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Ma veramente non ne ha lasciate? La domanda è lecita, se è vero che l’indagine compiuta dal governo svedese ha concluso che dietro l’attacco ci sia un «attore statale», cioè che ci sia stata un’operazione di intelligence organizzata e gestita da un governo. Stoccolma però ha deciso di tenere segreti molti dettagli dell’inchiesta, alimentando l’ipotesi che in realtà il caso è stato risolto ma strategicamente è meglio non rivelarne le conclusioni. La linea ufficiale, riassunta nelle parole del capo del controspionaggio svedese Daniel Stenling, è: «Al momento non abbiamo prove, ma auspicabilmente le avremo».
A complicare lo scenario è la notizia che Nord Stream AG, la società del gigante statale Gazprom proprietaria dei due gasdotti, nelle scorse settimane ha calcolato l’eventuale costo delle riparazioni, mettendo a punto diversi preventivi. Uno solo di questi interventi, secondo una fonte anonima citata dal New York Times, si aggirerebbe intorno ai 500 milioni di euro. Ovviamente, dando per buona l’ipotesi che sia stata Mosca a ordinare l’azione contro i suoi stessi gasdotti, la domanda è perché mai ora stia pensando di iniziare i costosissimi lavori di riparazione.
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Ma come tutte le cose russe, il mistero è nascosto dentro un enigma. E come sempre nell’universo delle intelligence, nulla è come appare. Il ragionamento di chi accusa il Cremlino è che Putin abbia ormai dimostrato di saper usare il gas come un’arma.
Già in agosto, il presidente russo ha chiuso il Nord Stream I, invocando problemi tecnici, poi a settembre ha detto che sarebbe rimasto chiuso a tempo indeterminato. Il 26 settembre è avvenuta l’esplosione, che ha danneggiato entrambi i gasdotti e che non va certo a vantaggio di Mosca, costretta ancora a pagare all’Ucraina i diritti di transito della vecchia condotta Druzba.
Ma l’attacco ai due Nord Stream ha disarticolato i mercati, provocando un’impennata dei prezzi del gas e di fatto assicurando che rimangano alti ancora a lungo. Questo, secondo la teoria, costituirebbe un incentivo per gli Europei a far pressioni su Kiev per accettare un negoziato e porre fine alla guerra. Ulteriore effetto dell’esplosione, quello di essere un avvertimento russo per Paesi come Polonia e Norvegia, da poco collegati da un nuovo gasdotto, come a dire: «Possiamo farlo anche altrove». Indizio a favore di questa tesi: il 26 settembre il Nord Stream I non trasportava gas.
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In realtà non c’è uno straccio di prova. L’improbabilità di un’operazione auto inflitta dei russi è palese. Gli omissis svedesi non aiutano l’accertamento della verità. I servizi di Stoccolma non vogliono neppure condividere tutte le loro conclusioni con altri servizi europei. Certo, episodi come la recente scoperta di una talpa russa nell’intelligence tedesca offrono un argomento alla loro diffidenza.
Ma il mistero del Baltico rimane. Come rimane senza ulteriori spiegazioni quello strano cinguettio di Sikorski. Che fra l’altro è marito della giornalista americana Anne Applebaum, una delle maggiori e meglio connesse esperte della Russia e dei Paesi dell’Est.
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