Francesco Persili per Dagospia
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«O la Roma o il sesso. Quando c’è di mezzo la Roma non si ha desiderio di pensare alle donne perché la Roma dà sempre preoccupazioni mentre er cazzo non vò pensieri…»
Orgasmi che bucano il cervello davanti a una radio Grundig in legno scuro e metallo, la formazione sgranata come un rosario, occhi bambini capaci di vedere l’invisibile e maglie sudate, domeniche avide di vita, fettuccine al sugo e Novantesimo, finite a tarda notte su una tv locale tra chiacchiere di calcio e qualche strappona affaccendata in mezzi spogliarelli. La verità, vi prego, sulla Roma. “Bisogna amalla popo quanno perde, a ‘malla quanno vince sò bboni tutti”.
Un romanzo d’amore e di uomini d’amore, “La gioia fa parecchio rumore” di Sandro Bonvissuto (Einaudi), una storia corale che ha al centro “quel popolo di eletti che ha posto la fedeltà alla Roma al centro del mondo”.
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Attorno a questo falò del romanismo, si radunano leggende, luoghi del cuore, Camelot giallorosse. Il motovelodromo Appio, vicino al Parco della Caffarella, ai Cessati Spiriti, “un luogo misterioso e misterico”, e poi Campo Testaccio. Gli spalti in legno, la gente che andava a vedere la partita come a un matrimonio, con il vestito buono e il cappello, gli undici lupi in campo animati da un sentimento antico e popolare, la "gajardia!. “Campo Testaccio, c’hai tanta gloria, nessuna squadra ce passerà…”. Un inno che è traccia seminale, stella cometa e destino. Leggenda vuole che la Roma in quel fortino non abbia mai perso.
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Morire di dolore e rinascere appresso alla Roma. Ogni maledetta domenica. Dalla disperazione all’esaltazione, rinunciando alla banalità di quello che c’è nel mezzo. Una mancanza di equilibrio che è la rovina della squadra. Ma che è anche una delle manifestazioni dello “specifico” romanista, la prova di un eccezionalismo megalomane e romantico, de’ noantri, crasi per “noi” e “altri”, che sta a significare noi siamo altro da voi».
Il vanto dei capitani-bandiera (Agostino Di Bartolomei, Giuseppe Giannini, Francesco Totti, Daniele De Rossi), le storie da romanzo (Ferraris IV, Losi, Kawasaki Rocca), il passato che non passa ed occupa tutto lo spazio, il riconoscimento reciproco di un’appartenenza: “Semo nostri”.
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E poi bandiere da portare allo stadio insieme ai panini con la frittata, trasferte “su pulmini lentissimi che profumano di mandarini” e la perdita dell’innocenza. La morte di Vincenzo Paparelli, tifoso della Lazio ucciso da un razzo sparato da un ultrà giallorosso. «Aspettavamo che cominciasse un incontro di pallone mentre ad iniziare sarebbe stata un’altra era del calcio. La morte era entrata negli stadi, nelle nostre vite, e non ne sarebbe uscita mai più. L’avremmo avuta sempre al nostro fianco, a ogni partita, e avrebbe condizionato tutti, vittime e carnefici, e nessuno di noi sarebbe stato più libero».
FALCAO DURANTE LA FINALE DI COPPA CAMPIONI CONTRO IL LIVERPOOL
È un romanzo di nostalgie e di attese, di una estate che sul punto di andarsene, porta un’euforia nuova. Viene dal Brasile. Si chiama Falcao. L’uomo del destino. Iniziano i giorni più belli per una generazione di romanisti “educati alla sconfitta”. Lo scudetto, la Coppa Campioni, la finale con il Liverpool, «e come per tutte le cose della vita alle quali ci si deve preparare, ovviamente non eravamo preparati…»
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