Antonio Carioti per "www.corriere.it"
CICERONE
Certamente non fu la violenza verbale degli oratori politici a far cadere la Repubblica romana, come osserva lo storico tedesco Martin Jehne, autore di una biografia di Giulio Cesare edita anche in Italia da il Mulino.
Ma lasciano dubbiosi le sue dichiarazioni al giornalista britannico Mark Bridge, apparse sul Times di ieri, in cui paragona gli insulti feroci che si scambiavano i protagonisti della vita pubblica romana (in prima linea Cicerone) alle campagne d’odio oggi ribollenti sui social network.
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Dire che non bisogna preoccuparsi troppo della brutalità con cui si viene aggrediti oggi su Internet, perché avveniva lo stesso nell’antica Roma ai tempi di Cesare e Pompeo, dove anzi quel tipo d’invettive aveva «un effetto politicamente stabilizzante», è un’arma a doppio taglio.
Perché è vero che nel I secolo avanti Cristo i leader delle varie fazioni erano pronti a mettersi d’accordo dopo essersi scambiati pesanti ingiurie. Ma parliamo pur sempre di un periodo segnato da lotte di piazza, confische, liste di proscrizione, guerre civili, repressioni cruente come quella scatenata da Silla nell’82 a.C.
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L’esito finale, dopo decenni di sangue, fu la pace interna pagata a prezzo della libertà, con il regime sostanzialmente dispotico imposto da Ottaviano Augusto, vittorioso nel 31 a.C. su Marco Antonio.
Quindi se il dilagare di quelli che oggi chiamiamo «discorsi d’odio» non causò la caduta della Repubblica, possiamo però considerarlo un sintomo non solo della crisi che l’avrebbe infine uccisa, ma più in generale del clima brutale tipico del mondo romano.
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Si tratta di una civiltà che ha avuto enormi meriti storici, ma non bisogna coltivarne un’immagine idilliaca: basti pensare che la schiavitù era comunemente accettata e le guerre di aggressione si susseguivano incessanti. Che oggi si riscontrino comportamenti tali da ricordare un’epoca del genere, sia pure solo nel campo del linguaggio e del dibattito pubblico, non è affatto un segnale rassicurante.
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