Giuseppe Sarcina per il “Corriere della Sera”
Se quello che era il tuo nemico mortale ora ti vende le armi, vuol dire che le cose sono davvero cambiate. Barack Obama annuncia la rimozione totale dell' embargo imposto al Vietnam da una legge del 1984.
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Ma soprattutto liquida l' ultima traccia della guerra che di fatto cominciò il 4 agosto del 1961, quando l' allora vice presidente degli Usa, Lyndon Johnson, volò a Saigon per assicurare «pieno appoggio» al leader del Vietnam del Sud, Ngo Dinh Diem. Proprio in quel 4 agosto a Honolulu, nasceva l' uomo che ieri, parlando da presidente degli Stati Uniti ad Hanoi, la capitale del Vietnam riunificato, ha dichiarato finita l' epoca della divisione «ideologica».
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L' annuncio nella conferenza stampa congiunta con il presidente vietnamita, Tran Dai Quang, dà concretezza politica al viaggio del leader americano. Il disegno di Obama è tanto ambizioso quanto complicato: costruire, facendo perno sul Vietnam, un cordone militare ed economico che possa arginare l' espansionismo della Cina.
Già nel 2014 l' amministrazione di Washington aveva deciso di riprendere la fornitura di attrezzature belliche non letali: un primo passo per spezzare il monopolio della Russia che da decenni rifornisce quasi in toto l' arsenale vietnamita.
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La completa apertura era subordinata ai «progressi» del governo comunista di Hanoi nel «campo dei diritti umani». Secondo l' organizzazione Human Rights Watch nelle prigioni vietnamite sono tuttora rinchiusi più di 100 dissidenti.
Lo stesso Obama, ieri, ha detto che i famosi «progressi» sono «mediocri» e che gli Stati Uniti continueranno a premere sulle autorità vietnamite per garantire «il diritto di espressione, la libertà di stampa» eccetera. Ma, evidentemente, la priorità assoluta adesso è rafforzare il legame con l' antico avversario.
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Il Paese indocinese si affaccia sul Mar cinese meridionale, in cui transitano il 50% del commercio mondiale e il 60% dell' export Usa. Ecco perché l' attivismo militare di Pechino nella regione allarma i generali del Pentagono. La Cina, tra l' altro, contende al Vietnam la proprietà assoluta dell' arcipelago di Spratly: scogli insignificanti, ma che emergono da fondali ricchi di petrolio.
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Ieri il presidente degli Stati Uniti si è prodotto in un abile esercizio diplomatico: «La decisione che abbiamo maturato sull' embargo non ha niente a che vedere con la Cina. È un modo, invece, per rimarcare i progressi della nostra collaborazione con il governo del Vietnam».
Da Pechino, Hua Chunying, portavoce del ministero degli Esteri, ha risposto a tono: «L' embargo sulle armi era il risultato della guerra fredda e non sarebbe mai dovuto esistere. Noi accogliamo con favore la normalizzazione delle relazioni tra Vietnam e Stati Uniti».
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L' alto tasso di ipocrisia, da una parte e dall' altra, segnala quanto sia delicato e precario l' equilibrio geoeconomico e geopolitico nel Mar cinese meridionale. Non a caso Obama ha chiesto una contropartita negli incontri con il presidente Quang, il primo ministro Nguyen Xuan Phuc e, soprattutto con il segretario generale del Partito comunista, Nguyen Phu Trong, il custode dell' ortodossia ideologica e la figura più sensibile ai richiami della Cina.
Davanti ai giornalisti il numero uno della Casa Bianca ha sottolineato la «disponibilità» del governo vietnamita a consentire alla U.S. Navy un approdo più facile «nei porti» del Paese.
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È probabile che Obama includa tra questi «porti» anche la Base di Cam Ranh, collocata in una posizione formidabile nel Vietnam meridionale. Oltre alle armi, i commerci, gli affari. Obama e Quang si sono rassicurati a vicenda sulla necessità di ratificare al più presto il Tpp, il «Trans Pacific Partnership», firmato il 5 ottobre 2015 insieme con altri 10 Stati. Il Tpp esclude la Cina. Il presidente americano spera ancora di poter superare le resistenze del Senato, in mano ai repubblicani. Specie se il Vietnam lo approverà in fretta.