Marino Niola per “la Repubblica”
Foto di Mario Spada
madonna dei fujenti
Corrono dalla Madre. A piedi nudi e vestiti di bianco. Li chiamano fujenti, perché non camminano, ma fuggono. Macinano chilometri per arrivare al Santuario della Madonna dell' Arco. Che si trova a Sant' Anastasia, a due passi dagli stabilimenti Fiat di Pomigliano d' Arco, sotto la mole incombente del Vesuvio. Ogni anno il giorno di Pasquetta, centocinquantamila persone provenienti da tutta la Campania si precipitano a rendere omaggio a questa madonna dal volto ferito, che ha sanguinato prima di tutte le altre.
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Ed è proprio la ferita, simbolo di un dolore antico, all' origine di questo culto. Si racconta che il lunedì in Albis del millecinquecento, un giocatore di palla a maglio, un antenato del baseball, furibondo per aver perso la partita, colpì con la palla di legno il volto della Vergine affrescato sotto l' arco di un acquedotto romano. L' immagine si mise a sanguinare miracolosamente e l' uomo, colto da una frenesia inarrestabile, cominciò a correre e a saltellare come un posseduto. Diventando così il primo dei fujenti. Che da allora alla sacra icona chiedono grazie e soprattutto consolazione.
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È un rito terapeutico che cura le ferite di un quarto stato senza sol dell' avvenire. Di un' umanità interinale, fatta di disoccupati, cassintegrati, sottoproletari, immigrati. Vite in croce che le splendide foto di Mario Spada restituiscono in tutta la loro violenza coreografica. Da sacra rappresentazione di periferia. Dove gesti antichi di autoumiliazione riemergono dalle profondità di una storia dimenticata. Sono i penitenti di Gomorra. Molti di loro strisciano con la lingua per terra fino all' altare.
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Le madri di Scampia e della Sanità avanzano sulle ginocchia portando in braccio i figli malati. In tanti gridano al cielo la loro domanda di lavoro. E quando incrociano lo sguardo di questa Madre sanguinante vanno in transe, come accadeva anticamente agli adepti del culto di Cibele, la Grande Madre mediterranea. Il cui tempio si trovava esattamente dove adesso c' è la chiesa.
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Proprio come in un antico rito di passaggio, i pellegrini si gettano nell' abisso del sacro a braccia aperte e con gli occhi nel nulla. Così la devozione diventa teatro. Non finzione ma religione popolare. Che non è roba intellettuale, teologia occhiuta, algide astrazioni, sottili introspezioni. Qui il sacro danza sui corpi, rimbalza sui volti. E viene messo a dura prova da queste schiere di donne minacciose che portano segni di pace, mentre i loro volti duri e provati sono quelli di un popolo in guerra.
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Le coreografie dei devoti hanno un' energia corale, quasi un rigore militare. Le paranze dei fujenti sfilano tutte in divisa. Le loro parate, provate e riprovate, trasformano in un sol corpo queste mille umanità minori, che sembrano abitare in un secolo della storia che non è il nostro.
E che si ritrovano tutte insieme a celebrare un rito pasquale dove la penitenza cattolica e i riti pagani della primavera, il Cristo che risorge e la natura che rinasce, diventano una cosa sola. Mentre nella penombra della chiesa carica d' incenso i pellegrini vivono il loro faccia a faccia con la grande Madre, dall' esterno giunge il battito ostinato delle tarantelle e delle tammurriate. Le note dei sassofoni, che ritmano il passo intonando la canzone del Piave, si mescolano a un canto solitario che chiama a raccolta «Chi è devoto alla Mamma dell' Arco ». Sembra il richiamo di un muezin e risveglia antichi echi che si richiamano da una sponda all' altra del Mediterraneo.
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