Valentina Lupia e Andrea Ossino per "la Repubblica - Roma"
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"Solo adesso ho ricominciato a dormire. Tra la denuncia e il divieto di avvicinamento sono trascorsi due mesi. Intanto io avevo paura anche quando ero chiusa dentro casa, ho capito cosa significa avere attacchi di panico, sono dimagrita cinque chili.
Ho seguito i consigli della polizia, ho memorizzato chiamate e messaggi senza bloccarlo, ma ogni volta che provava a contattarmi mi tornava in mente la sua mano sul mio collo, il suo pollice sul lato della mia gola, la sensazione di essere strozzata".
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La forza di Giulia vacilla solo quando ripensa al 6 agosto scorso, all'aggressione che denuncia di aver subito da Enrico Varriale. Il suo nome è di fantasia e si racconta con la voce rotta e una bella boccata di coraggio per lanciare un messaggio: "Voglio evidenziare le falle di un sistema che funziona solo se si ha la fortuna di incontrare persone competenti, ma che non mi ha tutelato abbastanza", dice.
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La velocità con cui si è attivato il codice rosso, la procedura nata per proteggere le vittime di violenza, non basta. Giulia ha atteso quasi due mesi prima di essere protetta da un provvedimento che impedisce all'ex vicedirettore di Rai Sport di avvicinarsi a lei. Il processo accerterà eventuali responsabilità, ma la lei ha deciso: "Voglio raccontarvi cosa accade alle vittime di violenza".
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Giulia, perché ha deciso di parlarci?
"È difficile affrontare la situazione in cui mi trovo, ma tutto ciò ha un senso se io posso essere uno strumento per veicolare alcuni messaggi, per far capire ciò che non va in un sistema che mi ha aiutata solo perché ho avuto la fortuna di incontrare persone competenti.
Le donne non devono trascurare i segnali ma rivolgersi subito ai centri anti violenza e denunciare. Nel frattempo una rete di affetti è l'unica cosa che può proteggere mentre la giustizia fa il suo corso. I tempi non sono così brevi come sembrano".
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Tre mesi per chiudere le indagini. In Italia è un record.
"Sì, ma sono trascorsi due mesi tra la denuncia e il divieto di avvicinamento. Lui continuava a cercarmi, ricevevo messaggi, mi citofonava, ha affittato un film con la mia carta di credito. Ogni giorno era una tortura.
Non mangiavo, ho perso 5 chili, sbirciavo dalle tende come fanno gli anziani e mi sentivo spiata. Non mi contattava tutti i giorni, ma ho ricevuto centinaia di messaggi e telefonate. Ogni volta che suonava il citofono tornavo al momento dell'aggressione, sentivo le mani stringersi intorno al mio collo, il pollice sulla mia gola.
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Mi era stata assicurata protezione, ma ero sola, con il rischio di cedere alle richieste di incontro. Ho ricominciato a dormire solo due giorni dopo il provvedimento".
Due mesi possono essere lunghi.
"Se non sei emotivamente strutturata puoi anche cedere alle richieste di incontri, puoi ricascarci. Lui veniva sotto casa, chiedeva di vederci".
Lei non ha denunciato subito.
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"Mi sento un'idiota adesso, ma in quel momento non ero lucida, avevo paura. La querela è un atto che aiuta a rendere la vicenda oggettiva. Io mi sentivo in colpa, c'è anche un lato sentimentale. Il 6 agosto, quando mi ha aggredita, urlavo ma Roma era deserta, c'era solo il portiere che è arrivato incontrando Enrico mentre scendeva le scale".
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A quel punto ha chiamato la polizia?
"No, io non volevo. Dopo i segni sulle braccia sono diventati evidenti, io in quei giorni andavo in giro con le maniche lunghe. Un amico e l'avvocato mi hanno convinta a farmi vedere da un medico e sono andata all'Ospedale Gemelli.
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I dottori hanno poi avvisato la polizia, da protocollo. Mi ha chiamato un ispettore del commissariato di Ponte Milvio dicendo che doveva vedermi con urgenza. È una persona molto preparata, mi ha spiegato quali erano le opzioni che avevo. Io non volevo neanche chiamare un centro anti violenza, non volevo metterlo nei guai".
Poi cosa è cambiato?
"La sera stessa in cui ho parlato con l'ispettore lui mi ha citofonato. Ho avuto un attacco di panico, ero immobilizzata. Poi ancora all'alba del giorno dopo, era domenica. Ho atteso il lunedì e il 9 agosto ho querelato.
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Ho perso troppo tempo. Ma mi sono chiesta: se succedesse a una mia amica cosa le consiglierei?. Quando alla fine mi sono rivolta al centro anti violenza tutto è stato chiaro. Ho iniziato a rileggere gli eventi, a metterli in fila. Tutti gli scatti di ira, le pretese che aveva nei miei confronti. Erano solo l'inizio della spirale di violenza. La violenza fisica è l'ultimo atto, prima ci sono i soprusi psicologici".
E dopo la querela?
"La polizia mi ha sentito entro tre giorni, come prevede il codice rosso, mi hanno detto cosa fare".
Quindi in qualche modo lei era tutelata?
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"Insomma, una volta quando mi ha citofonato ho avuto il panico, ho chiamato una mia amica, poi la polizia ma è arrivata 45 minuti dopo, quando lui era già andato via: erano le 21.10 del 30 agosto, era rimasto lì per più 40 minuti, telefonando continuamente e chiedendo di incontrarmi. Per questo occorrono tempi più rapidi. Io ho iniziato a rivivere solo dopo il divieto di avvicinamento, da quel momento non mi ha più cercata".
Dopo è stata meglio?
"Sì, ma è una situazione difficile da affrontare. La notizia è apparsa sui giornali, poi le indagini, la testimonianza in procura. La ferita si riapre ogni volta, sono ancora fragile, tremo ogni volta che suona il citofono".
Il percorso è ancora lungo, ci sarà un processo per accertare se ciò che dice è vero. Riesce a perdonare?
"Il perdono è un atto soggettivo, la giustizia invece è un atto sociale che non può essere comprato. Tutte le donne vittime di violenza subiscono conflitti interiori, ma occorre denunciare, la querela aiuta tutti e interrompe la spirale di violenza. Poi occorre costruirsi una rete di affetti che sostenga in quei momenti in cui si è vulnerabili".
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Cosa suggerisce alle donne che affrontano situazioni simili?
"Capite, informatevi, non si deve dimenticare, non si può andare avanti nella speranza che la situazione migliori, le cose vanno affrontate, non si deve tornare indietro, non si può scendere a compromessi, ho rifiutato un'offerta di denaro per ritirare la querela. La dignità non è negoziabile.
Però è necessario estirpare le falle del Codice Rosso: le sensazioni che ho provato io con lui sotto casa attaccato al citofono, c'è chi le vive col marito sul divano. Queste donne non possono aspettare due mesi".