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    ORA ANCHE I GIORNALONI, DA “CORRIERE” A “REPUBBLICA”, DA GALLI DELLA LOGGIA A FRANCESCO MERLO S’ACCORGONO CHE, SALITO AL POTERE, RENZI E’ DIVENTATO UN BULLETTO - SONO ARRIVATI A QUELLO CIOE’ CHE DAGOSPIA SCRIVE DA TEMPO. CI VOLEVA TANTO? NO, BASTA DESCRIVERE LA REALTA’ SENZA MISTIFICARLA...


     
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    1 - LE CINQUE RAGIONI DI UNA SCONFITTA

    Ernesto Galli Della Loggia per “il Corriere della Sera”

     

    RENZI E LA SCONFITTA NEL REFERENDUM RENZI E LA SCONFITTA NEL REFERENDUM

    La personalizzazione controproducente, certo; e poi l'eccessiva invadenza mediatica; poi ancora il fatto di avere contro 4/5 dei partiti del Paese e perfino buona parte del suo: tutto vero, sicché sembra essercene abbastanza per spiegare la sconfitta di Matteo Renzi al referendum di domenica. Invece non basta, credo. In quel risultato c' è qualcos' altro. Le sue proporzioni rovinose manifestano qualcosa di più: un rifiuto profondo che via via ha preso corpo nei confronti della personalità stessa dell' ormai ex presidente del Consiglio, il rigetto della sua proposta in un certo senso «a prescindere», la crescita di un' insofferenza radicale per la sua immagine e il suo discorso.

    matteo renzi dopo il referendum matteo renzi dopo il referendum

     

    Lo dirò molto alla buona: il risultato del referendum più che mostrare la devozione degli italiani al testo della Costituzione indica che alla maggioranza di essi Matteo Renzi era ormai diventato insopportabilmente antipatico. «Poco convincente», se si preferisce un termine politologicamente più nobile.

     

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    Eppure Matteo Renzi non è mai stato il giovane Achille Starace, anche se in tutte queste settimane i suoi avversari di sinistra e di destra - uniti in un lodevole afflato di impegno antifascista - si sono sforzati di dipingerlo in qualcosa di simile a un pericolo per la democrazia e di descrivere la sua riforma come la potenziale anticamera di una dittatura.

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    Invece, particolarmente oggi, nel giorno della sua sconfitta, sarebbe più che ingeneroso spregevole dimenticare le non poche buone leggi che il suo governo ha promosso, l' impulso dinamico che ha cercato d' imprimere in certi settori dell' amministrazione pubblica, la sua continua insistenza sulla necessità di svecchiare, sveltire, semplificare.

     

    Ma perché allora il risultato così negativo di domenica, perché l' ondata di antipatia e di avversione che ha travolto Renzi? Per effetto dei suoi errori, naturalmente, che hanno oscurato tutto il resto. Ecco un elenco disordinato di quelli che specie sul piano della comunicazione e dell' immagine, ma non solo, mi sembrano essere stati i più gravi.

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    1) Il profluvio dell' ottimismo, degli annunci sull' uscita dal tunnel, del «ce la stiamo facendo», «ecco ormai ce l' abbiamo fatta». Ai tanti italiani che viceversa se la passano tuttora male, talvolta malissimo e senza speranza, sentirsi dire che invece e contrariamente alla loro esperienza quotidiana le cose si stavano mettendo bene, deve essere suonata come una beffa e deve aver provocato un effetto di esclusione e di immeritata colpevolizzazione. Specie al Sud - verso il cui declino storico la comprensione politico-intellettuale e la personale empatia di Renzi non sono riusciti a mostrarsi se non eguali pressoché allo zero - l' effetto è stato catastrofico.

     

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    2) A una conferenza stampa o a una riunione di responsabili acquisti di una catena di supermercati si può comunicare all' uditorio attraverso le slide : a una massa di cittadini elettori no. Di un discorso complesso la gente comune può capire spesso la metà, ma capisce che se le si rivolge in quel modo significa che la si tiene in considerazione, che la si ritiene importante. Renzi non ha mai parlato al Paese in modo «alto» ed «eloquente»: starei per dire in modo «serio». La sola cifra di serietà del suo discorso è stata solitamente quella del sarcasmo: non proprio l' ideale, come si capisce, per suscitare simpatia. Per il resto la sua irresistibile propensione al tono leggero e alla battuta ne hanno inevitabilmente diminuito la statura politica.

     

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    3) La mancanza di posizioni critiche vere, argomentate e conseguenti di qualunque tipo verso le élite del potere che non fossero le élite politico-parlamentari o mediatiche italiane. In un' epoca invece nella quale - almeno a mio giudizio con più di un fondamento - è largamente diffuso un sentimento opposto, questo orientamento di Renzi non gli ha procurato alcuna simpatia.

     

    Che a mia memoria al capo del nostro governo non sia mai uscita di bocca un' espressione di censura verso i dirigenti dell' inefficiente e per più versi marcio mondo bancario o verso la Consob, responsabili della rovina di decine di migliaia di cittadini italiani, è apparso quanto mai significativo.

     

    Egualmente significativo, per esempio, che per tanto tempo egli non sia mai andato al di là delle battute circa il modo spudorato con cui l' Unione Europea si stava comportando con l' Italia a proposito della questione dei migranti. Cose come queste hanno allontanato Renzi dal modo d' essere e di sentire prevalente nel Paese. La sintonia con il quale non credo che sia stata di molto accresciuta dalla sua frequentazione intensa, a tratti si sarebbe detta compulsiva, con gli ambienti dell' industria e della finanza.

     

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    4) La politica dei bonus: dagli 80 euro ai lavoratori dipendenti, ai 500 euro a insegnanti e neo-diciottenni. Personalmente, così come dubito che i primi siano stati cruciali per il successo di Renzi alle Europee del 2014, invece sono sicuro che tanto i primi che i secondi non siano serviti ad aggiungergli il minimo consenso domenica scorsa. Il fatto è che l' attribuzione di tali somme (con quel termine «bonus», degno della pubblicità di un casinò volta ad attrarre clienti alle slot machine ) è stata sentita probabilmente non già come il riconoscimento di un compenso atteso e meritato quanto, più che altro, come l' elargizione di una mancia umiliante, concessa per acquistarsi il buon volere e la gratitudine del «beneficato». È facile immaginare la popolarità derivatane al «benefattore».

     

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    5) Il tratto marcato di «consorteria toscana» che Matteo Renzi non ha esitato a dare all' intera, vasta cerchia dei suoi collaboratori. È ovvio come ciò lo abbia fatto percepire dal resto del Paese come murato in una posizione «chiusa», non disposta ad accogliere e a colloquiare con apporti diversi. Si aggiunga il carattere non proprio di rango di un gran numero di tali collaboratori, così come dei tanti nominati in una miriade di posti: troppo spesso scelti con ogni evidenza più che per i loro meriti per la loro sicura fedeltà (vedi il caso, esemplare tra i tanti, per il risultato grigissimo verificabile quotidianamente da tutti 24 ore su 24, dei vertici Rai).

     

    2 - LA METAMORFOSI

    Francesco Merlo per “la Repubblica”

     

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    Avesse incontrato se stesso due anni fa, Renzi si sarebbe autorottamato senza pietà. Dalla Smart all' aereo di Stato, dal selfie al fotografo personale, dalla pizza con Blair al "bollito non bollito" di Bottura con Hollande e la Merkel, la sua è infatti la storia di uno spavaldo dell' antipotere che è diventato un potente spavaldo, la parabola del guascone del 2014 («Mi sento come Al Pacino nel film Ogni Maledetta domenica ») che si è gonfiato di boria nel 2016 («Sono cattivo, arrogante e impulsivo»).

     

    Gli spostamenti progressivi del potere hanno dunque trasformato il simpatico giovanotto che sfacciatamente voleva impadronirsi del mondo («Ho l' ambizione smisurata, non lo smentisco ») nel più scorbutico dei vecchi antirenziani che si compiacevano di essere uomini di mondo, «uno di quei polli di batteria» di cui il "renzidiprima" voleva a tutti i costi non rispettare le regole: «Non starò mai alle loro regole, le regole di una generazione che ha già dato tutto quello che poteva dare».

     

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    Il "renzidipoi" è invece quello che nel Capodanno del 2015 andò a sciare con la famiglia prendendo l' aereo di Stato sino ad Aosta e poi l' elicottero sino a Courmayeur. Si giustificò così: «Per protocollo di sicurezza», che è lo scudo linguistico di un privilegio. Il renzidiprima, il 18 febbraio 2014, al contrario diceva: «No, guardate, a me la scorta non mi garba, non la voglio, grazie. La mia scorta è la gente ».

     

    E tutti a replicargli «ma non si può...». Con la Giulietta bianca era salito al Quirinale e contro "il protocollo di sicurezza" montava sopra i treni: «Non voglio dare al Paese l' impressione di un uomo che una volta al governo cambia status, immagine, stile. Non posso e non voglio passare dalla bicicletta all' auto blu. Io sono di Rignano! ».

     

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    Ma ecco la questione amletica: quando quel ragazzo, che sembrava agli italiani simpatico e sanguigno, con quegli incredibili pantaloni attillati e il giubbotto di pelle a chiodo in opposizione ideologica, è diventato anche lui nomenklatura? Si sa, ogni rivoluzione mangia i suoi figli. Ebbene, quando Renzi si è auotomangiato? Quando Renzi ha smesso di fare il Renzi? E ancora: si diventa nomenklatura a poco a poco, oppure a scatti, o la sua era solo demagogia; oppure forse, c' è stato, nei mille giorni del potere, un momento fatale che ha cambiato il renzidiprima nel renzidipoi?

     

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    Di sicuro aveva ancora una fame da lupo («A 38 anni sono pronto per fare tutto») il renziediprima quando, il 13 luglio del 2013, andò di nascosto e di mattina presto a trovare la Merkel, che di lui disse: «Questo ragazzo mi incuriosisce». Due anni dopo, il 23 gennaio 2015, con una conferenza stampa napoleonica il renzidipoi esibì la Merkel ai giornalisti nella Galleria dell' Accademia di Firenze ai piedi del David: «Consiglio alla Germania di adottare la legge elettorale che noi abbiamo fatto in 11 mesi». E promise: «Come a Michelangelo era bastato togliere il marmo in eccesso così faremo anche noi con il processo di riforme, toglieremo la burocrazia in eccesso».

     

    E però, ad ogni slittamento dall' immagine di bullo bellimbusto, come il famoso Fonzie televisivo, a quella del boiardo di Stato con busto al Pincio, come La Marmora e Ricasoli, era come se i peli dell' ambiguità italiana si spostassero dalla faccia di D' Alema a quella di Renzi. E oggi il No che lo rottama dimostra che la metafora dei baffi ha traslocato: imago animi vultus.

     

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    Dunque sono traslocate le ambiguità, le mille trame attribuite, i presunti inciuci, gli affari, le ombre cinesi, il petto gonfio, il mezzo sorriso, persino il passo che da saltellante si è fatto marziale. E forse il momento fatale, quel momento che tutto riassume e tutto trasforma in Storia, è stato il suicido di Luigino D' Angelo, il 28 novembre del 2015, il sessantottenne pensionato - di sinistra - a cui la Banca Etruria aveva azzerato i risparmi, 110mila euro investiti in spazzatura finanziaria.

     

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    Renzi non pregò sulla sua tomba, non andò ad abbracciare la vedova, la signora Lidia Di Marcantonio («Solo Berlusconi mi ha mandato un bellissimo telegramma, lo Stato ci ha girato le spalle»). Renzi si chiuse a Palazzo Chigi, e non fece quel che il renzidiprima avrebbe fatto - prima di ubriacarsi con il 41 per cento dei consensi - : carezze economiche e belle parole ai pensionati, la promessa di riformare le banche, non dico i versi di Ezra Pound sull' usura e neppure le metafore di Brecht o gli aforismi di Kraus, o i disegni di Otto Dix, ma le parole di Obama del 2010 contro «gli speculatori banditi»: «Mai più salvataggi a spese dei consumatori». E invece il New Deal del renzidipoi fu… il salvataggio delle banche già fallite.

     

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    Ed è passata un' epoca da quando Renzi, giocando con il suo iphone faceva un autoscatto goffo e scriveva "io" sotto una faccia gonfia e nessuna messa a fuoco. Era l' 8 settembre del 2014. Confrontate quell' immagine con quell' altra, per esempio, del 29 ottobre del 2016, realizzata dal fotografo personale Tiberio Barchielli.

    È insieme a Zuckerberg lungo i corridoi di Palazzo Chigi, tra mappamondi e arazzi. Il renzidipoi ama infatti le eccellenze, i cantieri finiti, i nastri da tagliare, i viadotti riedificati a tempo di record e subito richiusi dopo la sua visita.

     

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    Era ben più vero e più popolare lo scapestrato che a Firenze, indossando l' elmetto giallo, saliva sulle ruspe, rispetto allo statista in visita alla Ferrrari il 31 agosto 2016, alla Ferrero il 14 settembre 2016, alla Lamborghini e poi alla Philip Morris il 23 settembre 2016, all' Hitachi di Pistoia il 13 ottobre 2016, alla ex Fiat di Cassino il 24 novembre 2016… Ma fotografandolo ormai abitualmente in pose che sanno di pensiero, il bravo Barchielli ce lo mostra nella verità più cruda: il renzidipoi è un personaggio ormai immaginario, il vezzoso involucro del potere, la metamorfosi è compiuta.

     

    E forse tutto è cominciato quel giorno a Siracusa, il 5 marzo del 2014, quando - ricordate? - in una scuola di borgata, vicina alla chiesa di Lucia, santa e sempre più cieca, Renzi accettò l' accoglienza servile dei bambini che, istruiti dai maestri, gli cantarono "facciamo un salto / battiam le mani / muoviam la testa/ facciam la festa".

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    Ecco, noi allora intuimmo la metamorfosi. Scrivemmo infatti: «Se fosse stato ancora lo stesso che, appena eletto segretario, scelse come inno "Resta ribelle" dei Negrita, Renzi avrebbe certamente intonato "prendi una chitarra e qualche dose di follia / come una mitraglia sputa fuoco e poesia". E, con l' incitamento a contestare e a irridere i maestri, avrebbe rifiutato quei miagolii che dai maestri erano stati imposti: "presidente Renzi/ da oggi in poi / ovunque vai / non scordarti di noi"».

     

    Ecco, c' era già il renzidipoi nel renzidiprima, l' evoluzione non fa salti, la metamorfosi è il bruco che non può non farsi farfalla, è l' uomo che non può che farsi scarafaggio. Viene dunque da lontano la sconfitta del renzidipoi. Ma non è la sconfitta dello stil novo "da Dante a Twitter" (che è il suo libro del 2012), ma è semmai il No al twittume che lo circonda, alla petulanza del circoletto social che, per esempio, produsse il ciaone ai tempi del referendum "No trivelle" (17 aprile 2016), la pacchianeria del vincitore renziano che dimostrò di non sapere vincere con quello sbotto di scherno che ricordava le corna di Gassman quando, sulla spider, sorpassava strombazzando.

     

    renzi a piazza del popolo manifestazione pd referendum renzi a piazza del popolo manifestazione pd referendum

    E però, poiché nella fine c' è sempre la perfezione dell' inizio, l' altro ieri Renzi ha dimostrato di saper perdere, di essere ancora un capo nel Paese dei maggiordomi e dei militanti ossessivi. Domenica notte, con accanto Agnese che lo rendeva elegante, Renzi ha provato che si può vincere perdendo. Sia pure per il tempo di un discorso, il renzidiprima infatti ha avuto la meglio sul renzidipoi.

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