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Giovanni Orsina per "la Stampa"
L'ambivalenza in politica può essere una grande risorsa: un leader convincente saprà sommare fasce elettorali così distanti da parere del tutto incompatibili, sostenendo nei modi e coi tempi giusti una cosa e il suo contrario. L'ambivalenza è tuttavia uno strumento assai delicato che rischia di rivolgersi rapidamente contro chi lo usa, portando infine alla sottrazione, non all'addizione degli elettori.
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I ballottaggi parrebbero confermare - con livelli di partecipazione così bassi il condizionale è obbligatorio - quel che già il primo turno aveva indicato con chiarezza: l'ambivalenza della Lega di lotta e di governo è di quelle che sottraggono e non sommano, non convince né i ceti produttivi «responsabili» né quelli periferici «arrabbiati».
Il fallimento di questa «strategia dell'ambiguità» rappresenta un problema macroscopico innanzitutto, com' è ovvio, per Matteo Salvini, davanti al quale si aprono tre percorsi tutti e tre costellati di controindicazioni: o puntare ai ceti produttivi, rischiando di regalare quelli periferici a Giorgia Meloni; o puntare a quelli periferici, rischiando di alienarsi il Nord; oppure proseguire nell'ambivalenza, sperando di riuscire a convertirla da limite in risorsa.
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Ma il problema pesa su tutta l'alleanza di destra-centro: non è un caso che Meloni, pur saldamente all'opposizione, non abbia tratto beneficio dalle difficoltà della Lega. E pesa infine sull'intero sistema politico italiano: integrare i ceti periferici in un progetto di governo interessa a chiunque abbia a cuore la democrazia italiana.
Per Salvini e per la sua coalizione diventa a questo punto vitale non uscire sconfitti dalla partita per il Quirinale. Come il riccio di Archiloco, in quella partita il destra-centro mi pare abbia in mano una sola carta, ma grossa: Draghi. Ma più grossa la carta, meglio la si deve giocare: di concerto coi compagni di squadra, e avendo in mente un progetto realistico su quel che accadrà dopo. Le premesse non sembrano delle migliori.