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    “MARADONA ERA COME IL JAZZ, LEGGEREZZA E IMPROVVISAZIONE. NON SI ADATTAVA ALLA TATTICA” – OTTAVIO BIANCHI, ALLENATORE DEL PRIMO SCUDETTO DEL NAPOLI, RACCONTA IL SUO RAPPORTO CON DIEGO IN UNA BELLISSIMA INTERVISTA A GNOLI: "COLPIVA IL RAPPORTO CON LA SQUADRA. DA STAR ASSOLUTA SAPEVA DI AVER BISOGNO DEI COMPAGNI. ERA SOTTOPOSTO A PRESSIONI INAUDITE" – LA "MONDEZZA" DI NAPOLI, ACHILLE LAURO, LA "FARSA" DELL'ITALIA CHE NON VA AI MONDIALI E I CALCIATORI DI OGGI "AL CENTRO DI UNA COSTELLAZIONE OPACA..."


     
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    Antonio Gnoli per “Robinson - la Repubblica”

     

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    Qualche tempo fa avevo letto Sopra il vulcano, che Ottavio Bianchi scrisse insieme alla figlia Camilla. E quel libro, che recava una bellissima prefazione di Gianni Mura, mi sembrò allora la più intensa manifestazione di affetto per il calcio e insieme la più pungente critica per le sue degenerazioni. Ho conosciuto Bianchi, ci siamo incontrati e ho visto in quest' uomo schivo i tratti della coerenza e della forza delle proprie convinzioni. Maturate in un'infanzia semplice vissuta in larga parte a Brescia.

     

     Da qualche anno Bianchi vive a Bergamo. Gioca, quando può, a golf. Non disprezza la dieta del silenzio. Per lo più tace ma le poche volte che decide di parlare lo fa con rara schiettezza. Guardo il suo volto di un quasi ottantenne, non molto diverso da quello che aveva allenato Maradona. Mi colpisce la parola certa e l'incertezza del suo procedere. Mi dice che gli hanno impiantato di recente due protesi alle ginocchia. Operazione complicata, dolorosa e che richiede tempo per tornare a camminare bene.

     

    Cosa significa per un ex calciatore, poi allenatore, un corpo ferito?

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    «Conviverci, sapendo che le ferite sono la memoria dolorosa di un gioco bellissimo che ho avuto la fortuna di praticare dall'età di 13 anni cioè da quando, sui campetti degli oratori, ho cominciato a tirare i primi calci. Allora non c'erano scuole né istruttori. Se avevi talento potevi solo sperare che qualcuno se ne accorgesse».

     

     

    «Calcisticamente ero dotato. Di solito si giocava in tornei parrocchiali ed ero tra quelli più contesi. Passavo da un oratorio all'altro guadagnando i primi soldini. Mio padre desiderava che studiassi per un lavoro che desse prospettive. Io pensavo che ci fosse solo il calcio».

     

    Che famiglia era la sua?

    «Semplice, le umili origini paterne non consentivano grandi voli o azzardi. Non ero certo che il calcio fosse, oltre al sogno, anche una professione praticabile. Da giovane cerchi di far coincidere le due cose. Ebbi la fortuna di essere notato e chiamato a 17 anni nelle giovanili del Brescia, la città dove sono nato».

     

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    Come ricorda la sua infanzia?

    «Sinceramente non la ricordo, o meglio ricordo che tutto quanto mi riguardava ruotava intorno al pallone. Di solito si tende a dilatare la propria adolescenza. Ma credo di non averne avuta una plausibile. Il fatto che fossi bravo a pallone mi ha tolto il periodo della spensieratezza. Per me giocare a calcio è stato da subito come entrare nella vita vera: impegno, sudore, professione. Vincere o fallire».

     

    Tanta determinazione da dove le veniva?

    «Credo dal carattere: schivo ma tenace. Un tempo una professione come la mia si misurava dal numero delle parole: se erano poche coglievano l'essenzialità di quello che facevi».

     

    E oggi?

    «Non basterebbe un intero vocabolario. Il calcio parlato ha superato di gran lunga quello giocato».

    Lei dunque esordisce nel Brescia.

    «Nelle giovanili e poi in prima squadra».

     

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    In che ruolo?

    «Iniziai come regista offensivo, avevo buona visione e controllo di palla. Ma accade qualcosa di imprevedibile.

    Nella prima partita contro il Como mi ruppi un ginocchio.

    Mi dissero che difficilmente avrei camminato come prima. Figuriamoci correre. Restai in cura per due anni. Fu un'esperienza durissima. Ma ricominciai a giocare. L'allenatore mi chiese se me la sentivo di fare il mediano. Divenni quello che aggrediva le caviglie dell'avversario».

    Un cattivo.

    «Diciamo un giocatore destinato a contrastare il gioco dell'altro».

     

    Dopo il Brescia?

    «Andai al Napoli. Ero in predicato di lasciare il Brescia per l'Inter, quella di Helenio Herrera».

     

    Cosa lo impedì?

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    «Semplicemente arrivò il telegramma del Napoli. Allora le società di calcio esercitavano potere assoluto sui giocatori. E il presidente del Brescia aveva deciso destinazione Napoli».

     

    Era soddisfatto per la scelta?

    «Ovviamente la chiamata all'Inter era il sogno di ogni giocatore. Ma anche al Napoli, che non aveva vinto niente, c'erano grandi giocatori: Zoff, Sìvori, Altafini per fare nomi che ancora oggi dicono qualcosa».

     

    Arriva quando?

    «Nel 1965. Con il taxi, che mi portava alla sede, attraversai una città che stava vivendo uno dei tanti scioperi degli spazzini. Mondezza ovunque. Dissi al tassista di fermarsi. L'impulso era fare dietrofront e tornarmene a Brescia. Ma ero vincolato. Non avevo margini tranne quello di spuntare un contratto un po' più ricco. Dissi al tassista di proseguire. Giunsi in sede e dopo varie vicissitudini firmai il contratto».

     

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    Il presidente era Achille Lauro.

    «Lui era presidente onorario. Quello effettivo era Roberto Fiore. Comunque Lauro mi volle conoscere».

     

    Che impressione le fece "il comandante"?

    «Non c'era cosa che accadeva a Napoli senza il suo sì. Un monarca assoluto».

     

    Un re populista.

    «Trattava il popolo napoletano come fosse una sua diretta emanazione. Circolavano le voci sulla distribuzione di pacchi pasta e di scarpe spaiate durante le elezioni. Comunque era un signore che incuteva rispetto. "Guagliò, mi hanno detto che tu si' uno tuosto e che ti sei fatto pagare assai". Gli risposi che mi ero fatto pagare per merito e certo non per altro. Fu così che cominciò la mia avventura al Napoli».

     

    Città dove sarebbe tornato da allenatore. Ma come la visse da calciatore?

    «Quel primo anno fu funestato da vari infortuni. Mi ruppi l'altro ginocchio, mi venne una peritonite, restai fermo tutto il girone di ritorno. Premesso che i drammi veri sono altri, fu una botta tremenda. A quel punto la carriera era a rischio e dovevo reagire».

     

    In che modo?

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    «Dimostrando sul campo di non avere niente, anche quando stavo male. Mascherare certi malesseri e al tempo stesso avere una grande determinazione. La sola cosa che non volevo fare era piangermi addosso, pur consapevole che non ci fosse nessuna certezza sul mio futuro. Oltretutto mi ero sposato giovane e dovevo tenermi ogni cosa dentro. Non c'erano gli psicologi o come li chiamano oggi i mental coach».

     

    Accennava ai grandi giocatori che militavano nel Napoli di allora.

    «Sìvori era il più talentoso. Sentiva talmente una partita che la sera prima in albergo non riusciva a dormire. Poi, prima di scendere in campo, aveva dei conati. Ma quando entrava, come un grande attore, si trasformava e la recita quasi sempre era superlativa».

     

    Anche lei sentiva la tensione della partita?

    «No, la sera dormivo benissimo, per me il dramma era il dopo. Rivedevo mentalmente la partita cercando di capire dove si era sbagliato».

     

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    È sempre stato così autocritico?

    «È un sentimento che mi sono portato dietro anche come allenatore».

     

    Da allenatore fa molta gavetta in provincia e poi ecco nuovamente il Napoli nel 1985. Qui vincerà uno scudetto, ne sfiorerà un altro. Bilancio lusinghiero. Una squadra fortissima che aveva al centro Maradona. Cosa è stato il rapporto con lui?

    «Come sa, Diego è scomparso da un anno. Mi hanno spesso sollecitato a parlare di lui. Le poche volte che l'ho fatto è stato con discrezione per le vicende umane che l'hanno travolto, al di là del campione immenso che è stato».

     

    Il campione lo conosciamo.

    «Ma lei non può immaginare cos' era vederlo in campo durante gli allenamenti. A parte l'abilità mostruosa, colpiva il rapporto con la squadra. Da star assoluta qual era, sapeva di aver bisogno dei compagni. Diego è stato uno splendido e generoso campione».

     

    Come uomo?

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    «Uno dei suoi grandi amici fu il suo preparatore Fernando Signorini. Lo sentii dire una grande cosa: con Diego io faccio il giro del mondo, con Maradona non riuscirei a fare il giro dell'isolato. Il Diego calciatore era la leggerezza, la musica inarrivabile; il Maradona uomo era soggetto a pressioni psicologiche inaudite. Ha pagato con gli interessi l'immensa notorietà che si era guadagnato sul campo».

     

    Come si gestisce un grande giocatore?

    «Non lo so, ma so che deve avere intorno un ambiente che lo lasci maturare. Quanto all'allenatore, deve sapere che il grandissimo giocatore non si adatta alla tattica. È come con la musica jazz, c'è l'improvvisazione, quella cosa che non ti aspetti e che fa la differenza. Ho giocato contro i più forti calciatori: Pelè o Cruijff per fare dei nomi. Li ho dovuti braccare come fossero prede irraggiungibili.

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    Ricorrere ai mezzi umani che avevo per tentare di fermarli. Per loro il pallone era il prolungamento del piede. Il campo il loro Olimpo. E lì impari a tue spese che il grande giocatore non complica il gesto atletico. Rende il difficile semplice. Tutto quello che è bello nella vita è riconducibile alla semplicità».

     

    Come è cambiato il calcio rispetto a quando era lei a praticarlo?

    «Basterebbe fare due conti. Un calciatore di fascia medio alta guadagna oggi intorno ai due milioni. Provi a chiedere a un imprenditore che ha 100 operai se riesce a realizzare alla fine dell'anno un utile di due milioni.

     

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    Un calciatore oggi è il centro di una costellazione opaca: avvocati, commercialisti, famiglie, procuratori, amici mettono in moto interessi e appetiti rilevanti. Un buon giocatore una volta, a fine carriera, metteva via due o tre appartamenti. Era la società che lo teneva sotto contratto, decidendo della sua vita professionale. Capisce che è impossibile un paragone con il calcio di oggi».

     

    C'è stata un'evoluzione?

    «Culturalmente c'è stata la scuola danubiana, l'epopea del grande Brasile di Pelè, il pragmatismo della scuola italiana che ha vinto molto, quella olandese, che però non ha vinto niente. Adesso c'è il tiki taka che necessita di giocatori di grandissima intelligenza e fluidità.

     

    Quando giocavo o allenavo se qualcuno passava la palla al portiere veniva giù lo stadio per i fischi. Oggi il portiere partecipa direttamente al gioco. Oggi un grande allenatore dà alla società la lista della spesa. Quando allenavo io dovevo arrangiarmi. Più che di evoluzione parlerei di scenari differenti».

     

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    Di solito del calcio cogliamo la passione del tifo e la bellezza del gesto atletico. Quasi mai il dolore di certe storie.

    «Vediamo solo quello che ci piace vedere. Per quei pochi che tra i professionisti ce la fanno, quante migliaia di calciatori ci sono che pur giocando benissimo si sono illusi di potercela fare? E cosa fanno una volta che si accorgono di finire come meteore? Spesso non hanno né arte né parte. Vivono il disagio fortissimo di far capire alle famiglie che hanno fallito e questo è l'inizio di una discesa tragica. Essendomi occupato delle giovanili ho vissuto molte di queste storie».

     

    Ha mai avuto la sensazione di non farcela?

    «Nel letto di ospedale era una certezza. Per le ginocchia allora non c'era chirurgia, non c'era risonanza magnetica. Ti ingessavano e poi speravi nella palestra».

     

    L'Italia non va ai mondiali: tragedia o farsa?

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    «Sta diventando una farsa, sono due volte di seguito che non si qualifica. Sotto il profilo sportivo è una cosa inaudita».

     

    Nonostante l'europeo.

    «Nonostante quello. Anche se a volte riusciamo a tirar fuori il famoso coniglio dal cilindro e stupire il mondo. Ma la verità è che il nostro calcio non è più di prima fascia. I grandissimi campioni vanno altrove».

     

    Vanno dove ci sono più soldi.

    «Siamo sempre lì, al portafoglio. Se fossi un dirigente della federazione tremerei al pensiero di come si dovrebbe rifondare il mondo del pallone».

     

    Le manca il calcio?

    «Ho iniziato presto e ho smesso presto. Dalla sera alla mattina si è chiusa una parte della mia vita. Senza nostalgie o ripensamenti. La verità è che mi ero preparato al dopo. C'è chi cade in depressione quando il telefono smette di squillare o i giornali non parlano più di te. A me per fortuna non è accaduto».

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