Carlo Vulpio per il Corriere della Sera
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Può essere, come diceva Pierre-Joseph Proudhon in Che cos' è la proprietà? , che la proprietà sia un furto. Ma può anche essere che la proprietà sia libertà, se per esempio nasce dal lavoro - dell' artigiano, del contadino, di chiunque. E questo lo diceva sempre Proudhon, nello stesso libro appena citato.
Ora, se sei un artista e rubi le parole dai muri e persino dai manifesti stradali per creare le tue opere d' arte irriverenti, e fai questo in maniera sistematica dal 1989, caduta del Muro di Berlino, dopo che nei due decenni precedenti più o meno con lo stesso sistema di appropriazione creativa, di rovesciamento del senso delle parole, di sovversione ironica e persino goliardica dei ruoli, hai preso in giro la seriosità del mondo - politico e non -, e se fai tutto questo scagliandolo anche contro sant' Enrico Berlinguer e san Luciano Lama che parlano di «questione morale», tu artista, commetti un furto o compi un atto di libertà?
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La risposta più naturale sarebbe «la seconda che hai detto» (copyright Corrado Guzzanti), specialmente se si tratta degli anni Settanta (ma fino al '77 degli Indiani metropolitani, poi con il '78 e il sequestro e l' assassinio di Aldo Moro quegli anni diventeranno di piombo). Invece nemmeno la seconda risposta è esatta. Perché nel nostro caso - che fingendo serietà potremmo sintetizzare come il caso «street art ieri e oggi» -, la «questione morale» è più semplicemente una «questione murale».
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La mostra Soft Wall , inaugurata ieri al Palazzo della Cultura di Catania, è la questione murale che batte la questione morale, l' ironia e il sarcasmo che battono la prosopopea delle mani pulite che poi pulite non erano, la sovversione non violenta - ma appunto affidata all' estro linguistico e al paradosso artistico - dei poteri costituiti e costituendi, delle maggioranze e delle minoranze, e senza risparmiare nessuno, né i ricchi, ovvio, ma nemmeno i poveri.
Soft Wall sono centocinquanta opere così, tutte del signor Pablo Miguel Papageno Matta Echaurren, alias Echaurren e basta. Ma, riveliamolo, Pablo come Neruda per volere del papà Roberto Sebastian, artista cileno, e Papageno come il protagonista del Flauto magico di Mozart per desiderio della mamma, l' attrice Angela Faranda.
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La mostra di Pablo Echaurren è curata da Francesca Mezzano, che ha «drasticamente selezionato», come dice lei stessa, le centocinquanta opere da una produzione quarantennale in cui acrilico, stencil, lettering, segni e scritte si sono mescolati e sovrapposti, come si vede in maniera evidente, voluta, insistita, nelle pitture Muro contro muro , le più recenti.
Mentre Emmanuele Emanuele, che da presidente della Fondazione Terzo Pilastro ha voluto e finanziato questa mostra, ricorre ai suoi ricordi americani degli anni Sessanta, «quando nelle città della California vidi per la prima volta questi muri decorati da graffiti e pitture incredibili», per definire Echaurren «padre putativo della street art in Italia». Street art, che, sempre per il gioco di parole che non manca mai nel lavoro di questo artista dadaista e futurista - che per questa ragione non era molto ben accolto tra gli ortodossi della sinistra e tra i compagni della sinistra più a sinistra -, non può e non deve diventare una «Wall Street» Art.
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Soft Wall è un muro soffice, di tela, sul quale si può scrivere e dipingere e attraverso il quale si può comunicare a tutti un' idea, raccontare una storia, esprimere un' emozione, fare una battuta, rappresentare un sogno, esternare un pensiero importante o importante soltanto per chi lo ha pensato.
Sui giornali per i quali ha lavorato - primi tra tutti «Lotta Continua», «Frigidaire», «Il Male» - nei fumetti che ha ideato e disegnato e in tutte le altre sue opere, Echaurren non ha mai perso di vista questi «fondamentali», e soprattutto non ha mai perso di vista non tanto la necessità o l' opportunità che la cultura sia anche «contaminazione di alto e basso», questo è un po' un luogo comune, quanto la convinzione che la cultura è nella strada, tra la gente, nella vita, persino quando la vita si dimostra un non senso.
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La stessa idea del Muro, soft ma pur sempre un Muro, scelta come tema di questa mostra, non si limita alla disumanità dei «muri che dividono» - ecco un altro luogo comune, cos' altro possono fare i muri se non separare? -, ma suggerisce persino di accettarlo il Muro - brutto, spiacevole, opprimente - se è una necessità difensiva, se sono in gioco vite umane. Perché il Muro di Berlino era una cosa, quello tra Israele e i Territori palestinesi, purtroppo, è un' altra.
PABLO ECHAURREN