Carlos D’Ercole per Dagospia
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“Ho smesso di dipingere quattro anni fa. Sono diventato un paleo-antropologo. Studiando e riflettendo a lungo, mi è venuta l’intuizione che l’Homo Neanderthalensis sia stato ghettizzato dal Sapiens e che un’altra evoluzione era possibile”.
Pablo Echaurren mi accoglie nella sua casa di Prati che fiancheggia il Tevere al settimo piano dove arrivo affannato dopo un percorso labirintico di scale e ascensori.
All’entrata un poster da lui disegnato di Arezzo Wave mi conforta, segno che sono arrivato a destinazione.
“Ormai non ho simpatia per il genere umano. E non ne ho per gli artisti”.
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Echaurren è diventato più duchampiano che mai. Come il suo Maestro, non sopporta la mercificazione che ha contagiato il mondo dell’Arte e vive in disparte lontano dal chiacchiericcio, dal mercato, dalle quotazioni.
Se Duchamp si dedicava agli scacchi, Echaurren invece ha scoperto il mondo delle pietre (“ogni selce scheggiata contiene più creatività di una fiera d’arte”).
Lo consolano in casa le opere di quei pochi artisti che stima e che si rivelano giganti rispetto ai nani del presente.
“Questo in salotto che vedi dietro di me è un piccolo quadro di Meret Oppenheim. In quella parete accanto invece c’è un piccolo Cy Twombly, che fa il verso a una mia vecchia opera. Elegantissimo Twombly, tra i miei preferiti”.
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Non poteva mancare in un’altra stanza Gianfranco Baruchello. “Questo è un suo regalo per la mia licenza liceale. Devo tutto a lui. Fu Baruchello a portare i miei primissimi disegni ad Arturo Schwarz. E mi ritrovai ad avere un gallerista ad appena vent’anni. Fu una svolta nella mia vita, l’autonomia economica. Povero, ma libero di andar via di casa”.
Prezioso il ricordo che conservava di quell’incontro lo stesso Schwarz: “Paino era un capellone, com’era di moda allora tra i giovani scapestrati, uscito da un’infanzia chiusa e ostile, cattivo studente: scorrazzava con la moto senza marmitta, aveva amicizie pericolose, suonava il basso in una banda anonima e senza futuro ma amava, istintivamente, Tristan Tzara e André Breton, pur avendone una conoscenza più che superficiale…
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Rammentando quell’epoca, Paino mi scrisse: ‘Leggevo a raffica, mi spolpavo, mi immergevo nei testi, mi sentivo come il Martin Eden di Jack London che dissoda il proprio cervello, che lo semina in tutto ciò che gli capita, che ne vede germogliare il primo alberello stenterello’”.
Echaurren ha appena compiuto 70 anni, il che vuol dire che è attivo, artisticamente, da almeno mezzo secolo.
I primi tentativi, per sua stessa confessione, sono imitazioni di Baruchello, ma si emancipa ben presto, dando vita a un suo percorso ben riconoscibile, in cui alto e basso convivono. Alla pittura si affianca il fumetto e la militanza politica si intreccia con l’amore per il rock e il primo punk.
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“La mia generazione è cresciuta con i Beatles, in particolare Love Me Do. Ho adorato i primi Rolling Stones, in particolare pezzi come Get Off of My Cloud. Ancora oggi con un gioco di parole dico ‘Get Off of My Family Tree’, quando faccio le mie incursioni paleo-antropologiche. E poi ho un debole risaputo per i Ramones, la loro melodia Anni Sessanta, velocizzante, dopo l’apnea del prog rock. Come avrai capito, detesto i Pink Floyd”.
Accanto a Twombly, noto qualcosa di De Pisis che Echaurren minimizza, desidero di sottrarsi al gioco borghese dello sfoggio, dell’elencazione. Interviene in mio soccorso la moglie Claudia Salaris, nota storica dell’arte e delle avanguardie.
“Queste sono delle ceramiche futuriste, delle tazzine di caffè di Giacomo Balla, Tullio d’Albissola e Gerardo Dottori. E questo è un presepe di Marinetti che ci hanno dato le figlie”.
Sulla parete opposta mi indica un quadro di Gastone Novelli, uno del surrealista Victor Brauner (“regalo per Pablo per i suoi dieci anni”), infine un ritratto di Anita Pallenberg realizzato da Mario Schifano.
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“Un esteta Schifano, ma la mia simpatia personale andava per Franco Angeli” sottolinea Echaurren riagguantando il discorso e riportandolo sui binari delle storie che a lui preme raccontare.
E non è un caso che una delle foto più belle di Echaurren, con caschetto alla Brian Jones, sia stata scattata da Angeli nel 1973.
Chi è affascinato dall’universo di Echaurren non può trascurare il suo côté letterario: dai libri sul furore collezionistico, Nel Paese dei Bibliofagi e Gli Introvabili, a quelli che rievocano la stagione dell’impegno con Lotta Continua e gli indiani metropolitani, Compagni e La Casa del Desiderio, fino al recente pamphlet il cui titolo dice tutto: Adotta un artista e convincilo a smettere per il suo bene.
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Tra le mille perle da incorniciare mi appunto questa: “L’artista integrato e pacificato con la propria reificazione, sindacalizzato nella pretesa di autoaffermazione, perennemente in bilico tra desiderio di stipendio e coscienza inquieta (come direbbe Carlo Emilio Gadda), si rallegra di apparire professionale al pari di un dentista, di un avvocato, di un notaio, del notaio messo lì a rettificare la sua sconfitta, la sconfitta dell’artista”.
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Pacificato Echaurren non lo sarà mai. Uscendo da casa sua, gli faccio notare i sentieri impervi che ho dovuto percorrere per poterlo incontrare. Mi risponde con un sorriso: “Non sono difficile come mi raccontano. E men che mai litigioso. Sono gli altri che litigano con me”.
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