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“La decisione di sollevare Mourinho è tra l’insensato e l’incomprensibile, anche se va detto che società ha fatto tutti gli sforzi possibili in questi anni. L’unica spiegazione che mi do è che i Friedkin abbiano intenzione di vendere. De Rossi? E’ stato caricato di una responsabilità gigantesca, gli auguriamo il meglio ma onestamente io guardo a quanti punti siamo distanti dalla zona retrocessione…” La pensa così il giornalista, fondatore del Fatto Quotidiano e grande tifoso romanista Antonio Padellaro, intervistato dalla trasmissione di Rai Radio1 ‘Un Giorno da Pecora’.
UN AMORE FOLLE LA CITTÀ SI SCOPRE ORFANA
Fabrizio Roncone per il Corriere della Sera - Estratti
mourinho friedkin
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Per Mourinho i romanisti hanno riempito ossessivamente lo stadio Olimpico come non era mai accaduto nemmeno per Totti. Una furibonda caccia ai biglietti, un sold out dietro l’altro, la sciarpata, l’inno. Cantato con lui.
E per lui. Non erano più partite di calcio: erano sabba. Mourinho è entrato nelle teste, nei cuori, nelle allucinazioni, nei sacri deliri di un’intera tifoseria. Un cronista racconta, non fa lo psichiatra: ma a Roma è subito stato chiaro che un’intera popolazione aveva spontaneamente deciso di seguire ovunque un allenatore arrivato carico di trofei e di magnetico egocentrismo, pieno di perfide astuzie e inaudite dolcezze, comunicatore geniale, abilissimo nell’intercettare e interpretare quel preciso sentimento romanista in cui convivono efferato orgoglio e tremenda frustrazione, e per il quale i padri tramandano ancora ai figli e alle figlie la leggenda del gol annullato a Turone.
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Tutto questo è strano? È logico? Però è successo. E questo resta. In verità restano anche due finali europee consecutive: quella vinta a Tirana in Conference League e festeggiata — per struggente disabitudine a qualsiasi vittoria — come una Champions, con il giro d’onore sul pullman scoperto, le foto sotto al Colosseo, i balli fino all’alba, e quella persa, in Europa League, a Budapest, indirizzata da un arbitro sciagurato.
Certo la sensazione è che l’aspetto sportivo, per lunghi tratti, fosse comunque diventato un dettaglio: i romanisti più che per le azioni da gol (mai troppo belle, ma il calcio di Mou non è mai stato spettacolare), si sono entusiasmati per quella luce che brilla dentro gli occhi dello sciamano. E per quel suo parlare a nome di tutti, per tutti, e contro tutti. Era dai tempi dell’ingegner Dino Viola che non succedeva: la tribù giallorossa aspettava solo quel segnale di fumo per ritrovarsi. E, forse, è proprio questo che ai Friedkin, alla lunga, non è piaciuto. C’era troppo Mourinho ovunque. Dentro e fuori Trigoria. Dove fa sapere che se Dybala non fosse di seta, giocherebbe a Madrid o a Parigi.
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E che se comunque alla fine è venuto, è soltanto grazie a una sua telefonata. Come pure Lukaku (arrivato a campionato iniziato). Invece Shomurodov e Sanches sono alcune delle felici, diciamo così, intuizioni di Tiago Pinto (ormai in uscita, nonostante si stia in pieno mercato e impazzi il casting per trovargli un erede).
La verità — dice Mou nell’ultima conferenza stampa — è che non sono un mago, non mi chiamo Harry Potter. La rosa, sott’inteso, è scarsa. E anche risicata. Del resto: con Smalling sparito la scorsa estate e Kumbulla convalescente, la Roma ha solo tre centrali difensivi di ruolo (diventati due, quando N’Dicka è partito per la Coppa d’Africa). Ma è stupido indugiare su aspetti tecnici. Questa è la storia di un miraggio. E di un popolo che, improvvisamente, si ritrova destinato alla provvisorietà. I Friedkin, licenziando il tecnico portoghese, sanno di averla fatta grossa e, senza scrupoli, giocano la carta del populismo più banale: chiamano Daniele De Rossi. Che accetta (e dove abbia trovato il coraggio di accettare un simile incarico, francamente resta — per ora — un mistero).
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