Elisabetta Reguitti per il Fatto Quotidiano
violenze domestiche
"Mi ha chiusa in camera, si è messo a cavalcioni su di me e mi ha rasato la testa dicendomi: 'così non lo fai più'". In 3 ore di deposizione la ragazza, dietro il paravento, pronuncia una sola volta la parola "padre". Lei lo indica genericamente come "lui". Tribunale di Milano, oltre 5 ore di udienza per ricostruire i fatti avvenuti tra quell'uomo, che ora ascolta da dietro le sbarre, e le cinque donne della sua famiglia che lo hanno denunciato: moglie e 4 figlie.
Lui arriva ammanettato dal carcere di San Vittore: jeans, maglione e scarpe da ginnastica bianche, un giubbotto nero che toglie e indossa compulsivamente nel corso del dibattimento davanti al collegio penale. In aula il pm Giovanni Tarzia che aveva chiesto il giudizio immediato. In aula prosegue il racconto.
Vengono sentiti i testi della difesa: il compagno della giovane donna e il consuocero del presunto "padre padrone", detenuto, che assiste. Tarzia incalza con le domande rispetto ai reati contestati: "Ha mai assistito a violenze?", "Ha mai avuto paura del padre della sua compagna?", "Sapeva chi gestiva i soldi della pensione di invalidità di una delle sorelle della sua compagna?". Iniziano i "non ricordo", gli "ero al lavoro".
VIOLENZA DOMESTICA
Persino sulla vicenda dei capelli e delle sopracciglia chi, a inizio udienza, ha giurato di dire la verità risponde con un generico "mi pare che una volta mi abbia parlato di qualcosa del genere". Il processo continua.
Altre udienze per vent' anni di violenze, maltrattamenti e angherie familiari.