Malcom Pagani per “Vanity Fair”
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Giorgio dice ritrovarono suo fratello in una notte d’inverno «buttato come fosse un materasso usato, tra i cespugli davanti al mare di Viareggio». Giorgio giura che il giorno del funerale a Montignoso, superati i cipressi all’ingresso: «piangevano tutti quelli che Franco aveva derubato, insultato, deluso e tradito. Persone che non avevano mai smesso di volergli bene perché a esclusione di se stesso, Franco non aveva mai fatto del male a nessuno».
Giorgio ricorda che quando arrivava l’Ape piaggio del gelataio Eugenio e le premesse erano più dolci delle promesse non mantenute: «io e Franco, bambini, camminavamo con gli zoccoli, le magliette a righe e un cono più grande delle nostre stesse mani alzando passo dopo passo la polvere sulla ghiaia». Per non farne posare altra sulla memoria e lucidare un amore profondo raccontato fino a oggi con superficialità, Giorgio Panariello su Franco Panariello, morto nove anni fa al limitare di una strada dopo una vita ai margini, ha scritto un libro.
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«L’ho fatto per togliere dalla testa della gente che Franco fosse un ex tossicodipendente travolto dall’ultimo buco e far capire che la sua storia, una storia non troppo diversa da quella di tanti altri fantasmi che osserviamo distrattamente ogni giorno avvolti nei loro giacigli nelle nostre città, sarebbe potuta capitare a chiunque».
Si disse che nel 2011 Franco fosse morto per overdose e si scoprì invece dopo un penoso processo che l’unica droga di quella sera era stato l’abbandono di un uomo «per vigliaccheria».
Tre persone con le quali si era sentito male mentre era con loro a cena lo avevano scaricato da una macchina e il suo cuore, in una terra di mezzo in cui l’omissione di soccorso confina con l’omicidio, la scomparsa della pietà è stretta parente del pregiudizio e il passato determina il futuro, poi lo nega e infine lo cancella, aveva smesso di battere per ipotermia. Nel mettere insieme i frammenti e trasformare Io sono mio fratello in un mosaico incastonato tra il memoir e il romanzo, Panariello si è affidato al calore umano e non si è fatto sconti: «Volevo rendere giustizia a Franco e assumermi le mie responsabilità».
In che senso?
panariello con il fratello
«Tra me e Franco la differenza l’ha fatta la fortuna. Ho avuto soltanto più culo di lui, ma Franco avrei potuto essere io. Nessuno dei due aveva mai saputo chi fosse nostro padre e mia madre, che ci aveva messi al mondo troppo in fretta, non era stata in grado di assolvere alla sua funzione. Io, nato un anno prima di lui, venni affidato ai nonni. Lui finì presto in collegio senza incontrare affetto e attenzioni. A Franco, nella vita, è mancato soprattutto l’amore».
Chi era Franco Panariello?
«Un ragazzo selvaggio. Un poeta. Uno spirito ribelle. Una persona buona. Un ossimoro vivente. Una contraddizione. Un bugiardo patologico e al tempo stesso un uomo di parola. Un generoso. Uno che se ti rubava ventimila lire dal portafogli, quindici, stia pur certo, le spendeva per offrirti da bere.
il fratello di panariello
Uno che l’amore di cui le parlavo lo cercava ossessivamente: nelle ragazze, nel calcio e negli amici. Lo ha profuso per anni nella fumosa speranza di incontrarlo senza mai riuscire a trovarlo davvero. O forse, quando è accaduto, era talmente confuso dall’eroina da non essere in grado di rendersene conto».
Nel suo libro la vostra storia apparentemente così diversa procede su binari che corrono uno accanto all’altro.
«Ho capito che volevo scrivere un percorso parallelo: la storia di due fratelli che si divide per poi riunirsi. Non un libro su di me o su di lui, ma su noi due. Non un apologo sul povero artista che ce l’ha fatta pur avendo un fratello matto e disgraziato, né un’autobiografia, ma un racconto utile a far capire che tra precipitare dalla scarpata o fermarsi sulla soglia del burrone, la differenza è minima».
Per scrivere ha dovuto affidarsi a ricordi a volte lontanissimi.
«Ed è stato difficile perché con la mia infanzia ho un rapporto stranissimo: non ho conservato foto e in generale ricordo poco. La prima volta che ho incontrato mio fratello però non l’ho dimenticata perché ancor prima di vederlo, l’ho sentito. Come un’onda, una presenza, un colpo di vento.
giorgio panariello
L’immagine di questo bambino ben pettinato che spuntava da un groviglio di gambe adulte e a un tratto alzava la testa svelando il suo strabismo non l’ho dimenticata. Me lo presentarono fugacemente: “Questo è tuo fratello”. Io non capivo. Ma avevo avuto la sensazione di essere guardato da una presenza che in qualche modo mi apparteneva e che con il tempo avrei imparato a conoscere meglio».
Una sensazione giusta.
«Non ci volle molto perché la verità uscisse. Due mezze cattiverie dei compagni di scuola, i miei nonni molto più adulti dei genitori dei miei coetanei, il dubbio che si insinua e in breve tempo misi le cose nella giusta prospettiva: mi stavano crescendo i miei nonni perché io e Franco eravamo figli di una madre che ci aveva partoriti e poi lasciati apparendo soltanto a folate, durante le feste comandate. Nei suoi confronti comunque, non ho mai provato né rabbia né odio».
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Ha provato amore?
«Solo indifferenza. Non l’ho mai amata perché lei non mi ha insegnato a farlo. I miei veri genitori, il babbo e la mamma, sono stati i miei nonni. Il Bà e la Mà, come li chiamavo non mi hanno mai fatto mancare niente. Non c’era una lira, ma c’era sentimento. La Mamma, quella vera, invece appariva ogni tanto, come Franco che mio nonno, un uomo di un’altra epoca, impiegato alla Dalmine, non potè adottare per questioni economiche.
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Erano gli anni del boom, ma il benessere evidentemente era arrivato ovunque tranne che da noi. Franco venne mandato a Marina di Massa, in collegio e la sua vita deragliò. Prima l’insofferenza verso le regole, la violenza e la disperazione, poi le notti insonni e il disordine, infine le droghe. Ma ci fu un tempo che ora mi appare lontanissimo in cui nella provvisorietà in cui il mio “fratello ogni tanto” andava e veniva, avevo sperato in un orizzonte diverso».
Quando?
«Verso i diciott’anni. Un pomeriggio arrivò in casa, butto uno zaino nell’armadio, prese possesso del mio lettino e per un periodo convivemmo nonostante le imprecazioni del Bà con il quale Franchino- non solo per il rifiuto originario- non avrebbe mai potuto trovare un punto d’incontro. Troppo diversi, troppo orgogliosi, troppo distanti».
Lei invece con Franco lo cercò.
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«Cercavo di capire chi fosse, cosa volesse diventare, se dietro alla sua aggressività ci fosse affetto per me».
E c’era?
«C’era perché non mancava mai un’occasione in cui mi difendesse facendo scudo con il suo corpo ai pericoli e ai soprusi, ma quell’affetto pulsava nel quadro di un’ambivalenza di fondo. Franco, ed era difficile rinfacciarglielo, provava invidia per quello che avevo: una stabilità, una famiglia, un gruppo di amici. Tutto quello che lui in collegio non aveva potuto avere. Lo percepivo proprio come lui sentiva che ero suo fratello e doveva volermi bene.
Gliene volevo anche io: ma eravamo agli antipodi. Io curioso, mite e distaccato, lui molto più carnale, rabbioso e inconsulto. Abbiamo attraversato tante fasi, ci siamo amati, odiati e anche dimenticati l’uno dell’altro. Franco in tempi diversi è stato la mia gioia, ma anche la mia amarezza, la mia incertezza e la mia zavorra. All’epoca comunque ognuno dei due inseguiva qualcosa di opaco, di indefinito, di informe».
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Lei cosa inseguiva?
«Non lo so. A scuola me la facevo con i rivoluzionari al solo scopo di saltare un’ora di lezione, mentre cercavo un lavoro per poter dare una mano ai nonni. Mi ero iscritto alla scuola alberghiera che lasciai in fretta per trovare un posto come operaio elettricista ai cantieri di Viareggio mentre in casa la situazione peggiorava a vista d’occhio».
Come mai?
«Per potersi permettere un bicchiere in più, lasciato il collegio, Franco aveva iniziato a dedicarsi ai piccoli furti e quando mio nonno lo venne a sapere in men che non si dica lo mise alla porta. Con estenuanti mediazioni, io e la nonna lo convincemmo a farlo dormire nel box in lamiera che era accanto alla casa. Un tugurio che d’inverno gelava e d’estate infuocava. Ci perse letteralmente un polmone, Franco, in quella fredda scatola di ferro. In breve iniziò a staccarsi progressivamente dalla realtà, a covare rancore e a rifugiarsi in quella parallela».
Provò a scuoterlo?
«Se avessi avuto dieci anni di più, le palle e il carattere per attaccarlo al muro e spingerlo a un’ambizione di qualsiasi tipo, forse avrei potuto fare qualcosa. Oggi che ho una struttura mentale solida potrei, ma la verità è che all’epoca non stavo tanto meglio di lui. Lui aveva le sue dipendenze, io i miei abissi. Anche se le condizioni di partenza erano state diverse, l’orizzonte era simile: nessuno dei due vedeva un futuro».
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Prima mi ha detto che Franco avrebbe potuto essere lei.
«Ci andai vicino, davvero vicino perché nel tentativo di stargli accanto mi stavo trasformando proprio in Franco. La realtà mi pesava. Stavo bene solo con il vino e la canna in bocca. Le cose stavano andando molto male.
Mia nonna era morta, mio nonno si era lasciato andare e rincasava a casa ubriaco, il riscaldamento era stato staccato e in quell’umidità non solo metaforica, avevo iniziato a lavorare, ma i soldi non bastavano mai e disperavo di poter pagare le rate dell’utilitaria che per spostarmi tra sagre, piccole radio e spettacoli mi era assolutamente necessaria. Così per non perderlo di vista, in un certo periodo mi introdussi nel suo giro d’amici».
Come mai?
«Mi illusi che tentare di farlo smettere con la droga non sarebbe stato impossibile. Lui me lo permise perché mi vedeva a un passo dal crollo e forse pensava che se fossi diventato come lui avrebbe potuto dire: “avete visto che il bravo ragazzo che tutti stimate non è poi così diverso da me?”.
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Una sera mi misero davanti l’eroina. Avrei dovuto sniffarla e l’avrei sicuramente fatto, forse per sfida idiota o forse per dimostrargli che tra il diventare dipendenti o il non esserlo la differenza era soltanto nella forza di volontà. A un certo punto vidi spuntare un accendino, poi un cucchiaio, infine un cristallo e capii a cosa stavo andando incontro. Uscii di corsa da quella casa e probabilmente mi salvai la vita».
Cosa capì quella sera?
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«Che avrei potuto dare una mano a Franco soltanto se avessi cambiato davvero vita e avessi provato a diventare un artista con tutto me stesso. Così iniziai a concentrarmi su di me, a lavorare più intensamente, a darmi da fare: in radio ad esempio facevo di tutto. Passavo le pubblicità, mettevo la musica, mandavo in onda le telefonate. Alle prime venti, un’imitazione. Cominciai a innamorarmi delle conseguenze dell’amore degli altri, dell’applauso, della notorietà».
Con grande onestà mi ha detto che Franco per lei ha rappresentato anche una zavorra.
«Lui aveva la sensazione di avere un fratello ingombrante e la stessa sensazione abbracciava anche me, ma è chiaro che un fratello in quelle condizioni era anche una zavorra: per fare il mio mestiere devi avere la testa libera. Non è un lavoro, il mio: è vita. E se nella tua vita tensioni, amarezze e delusioni divorano il quadro ed esistono solo quelle, finiscono per condizionare l’andamento della tua carriera.
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L’inizio fu quasi impossibile perché prima che mi riconoscessero un ruolo e un talento trascorsero stagioni in cui arrancavo con enorme fatica. Il lavoro era la mia distrazione, ma poi una volta a casa i problemi di tutti i giorni si ripresentavano. Partivo e poi ritornavo. Andavo a far lo spettacolo, salivo sul palco e per tre ore passava tutto. Quando non vedevo Franco l’ansia diminuiva, ma poi subentravano i sensi di colpa».
Ha scritto questo libro anche per espiarli?
«Non c’è niente che ti freghi come il senso di colpa: ho fatto molti sbagli nei confronti di Franco, anche e soprattutto per il senso di colpa. Chiunque abbia in casa una persona che fa uso di stupefacenti ha un senso di colpa perenne.
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Mi sentivo in colpa quando foraggiavo i suoi vizi, quando gli negavo il denaro e anche quando le malelingue sussurravano: “Ma come, con un fratello così quello pensa a far ridere?”. È difficile far ridere se hai la tragedia dentro, ma è tutta la vita che faccio i conti con il senso di colpa. Perché qualcuna e ce l’ho e anche quando sono innocente, tendo ad attribuirmele».
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Per qualche tempo lavoraste insieme?
«Pensai che portarlo con me potesse aiutarlo, ma mi dovetti ricredere. Per alleviare l’astinenza si affidava ad alcool e pasticche e in certe occasioni, se non ci fosse stato da piangere, ci sarebbe persino venuto da ridere.
Una sera sul palco mise tutte le canzoni sbagliate e in un’altra spese tutto il mio cachet per offrire da bere a mezzo paese. Rubava, mandava a fare in culo tutti, ma non so perché sapeva comunque farsi voler bene. Quella sera quando andai per farmi pagare l’impresario mi disse: “Ti dovrei dare 300.000 lire, ma purtroppo adesso sei tu che ne devi dare cento a me. Tuo fratello ha offerto da bere a tutti e nel bar non è rimasta neanche una bottiglia». Lo disse tutto d’un fiato, ma lo disse con simpatia».
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Lei e Franco arrivaste però anche alle mani.
«Accadde perché eravamo entrambi disperati. Una notte al culmine dell’esasperazione mi aggredì perché secondo lui gli avevo nascosto le sue pasticche e non ci vidi più. Lui tentò di darmi un pugno, io evitai il colpo e lo picchiai, forte, per la prima e ultima volta della mia vita. Mentre era ancora steso tra le lenzuola da lavare a causa dei colpi ricevuti feci in fretta le valige e lasciai la casa non prima di aver scritto un biglietto: “mi dispiace di non essere riuscito a dimostrarti che vivere come me fosse meglio”.
barbara d'urso e giorgio panariello
Quando molto tempo dopo mi diede ragione e mi chiese aiuto, il nostro rapporto migliorò definitivamente. Fino ad allora si era trattato di un’alternanza di momenti vissuti in maniera devastante: c’erano occasioni violente, istanti in cui temevo anche per stesso, sere in cui guardavo dietro la tenda con il timore di vederlo spuntare alla porta all’improvviso».
Cosa accadde subito dopo quella rissa?
Panariello Conti Pieraccioni
«Avevo bisogno assoluto di una tregua. Così passai un paio di mesi felicemente allo sbando, uno sbando creativo, in un bungalow non riscaldato davanti al mare. Gli amici mi portavano le coperte e i pacchi di pasta, ma nonostante tutto quel periodo rappresentò un’oasi di paradiso dopo troppi gironi infernali».
Lei ha conosciuto il successo in ritardo, ma con Torno Sabato fermò davanti ai televisori mezza Italia.
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«Quando mi chiedono cosa serva per farcela rispondo sempre: pazienza, determinazione e un po’ di culo. Fino a quarant’anni mi era mancato l’ultimo elemento che dopo tanto teatro e un po' di cinema si materializzò con la tv. Quella vera. Il mio colpo di fortuna si chiama Agostino Saccà. Lo incontrai al termine di uno spettacolo, mi riempì di elogi e mi promise che se fosse arrivato in Rai mi avrebbe dato un programma.
Trascorso un anno mantenne la promessa e mi ritrovai catapultato in prima serata, con gli occhi di tutti addosso. La prima stagione di Torno Sabato fu un trionfo e la seconda, sempre con Bibi Ballandi nel ruolo di deus ex-machina, quadruplicò i propri appuntamenti diventando un programma itinerante da Nord a Sud in 15 puntate. Ha idea di quanto fosse difficile andare in onda con quello che passavo in famiglia? Eppure dovevo essere sempre imperturbabile, perfetto, inappuntabile. Tra il comico e l’uomo la scissione era totale».
POVIA BLASI PANARIELLO CABELLO
Che rapporti aveva con Franco all’epoca?
«Non lo vedevo da un po', ma sapevo che si era messo a spacciare. Puntualmente gli avvoltoi che volteggiavano su Franco e lo invitavano a presentarmi il conto si ripresentarono. Trovarmi non era difficile. Una sera lo vidi spuntare fuori da un camerino accompagnato da un ceffo. Lo invitai ad entrare e mi chiese subito il denaro. Fui fermo: “Franchino, soldi per far drogare te e i tuoi amici non te ne do più”.
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Lui ringhiò: “Non fare la merda”. “Non faccio la merda, sai che ho ragione”. La discussione degenerò, il suo volto trasfigurato emanava rabbia. Cedetti e gli diedi i pochi euro che avevo in tasca. Li prese con disprezzo prendendo a calci il tavolo delle parrucche. Mi ritrovai solo e guardandomi allo specchio mi diedi del coglione. Avrei dovuto prendere lui e l’altro a calci in culo e cacciarli. Avevo voglia solo di tornarmene a casa, ma dovevo portare avanti le prove. Reggere alle pressioni. Dimostrare a chi mi aveva dato fiducia che la meritavo.
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Furono mesi impossibili in cui temevo sempre di vederlo spuntare finché una sera, tempo dopo, mi venne a trovare. Scorsi subito qualcosa di diverso. Scoppiò a piangere. Si disse disperato. Maledì l’eroina e la vita disperata che aveva condotto fino a quel momento. “Sono arrivato a picchiarmi con un barbone per mezza mela marcia trovata per terra”. Si mise a piangere e poi tirò fuori il biglietto che gli avevo lasciato quella sera in cui eravamo arrivati alle mani. Era tutto sgualcito. “Mi hai dimostrato che avevi ragione” disse “ora tocca a me”».
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Per salvare suo fratello dall’inferno, lei e Franco dopo quella conversazione vi recaste anche insieme a San Patrignano.
«Andrea Muccioli se ne fregava di chi avesse davanti. Era difficile entrare a San Patrignano perché a tutti gli effetti San Patrignano brillava come l’ultima occasione per i dannati. Di quel giorno ricordo la sua faccia, un volto che metteva paura mentre Franco per contraltare faceva lo spavaldo.
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“Uscirò dalla droga” diceva tronfio: “ce la faccio”. Mentre Andrea, gelido, ribatteva: “tu non ce la farai, sei una merda, appena sei da solo ti fai un buco”. Un confronto durissimo che si concluse quando Franco a un certo punto iniziò a piangere come un bambino ammettendo di aver bisogno di aiuto. Era lo scopo di Andrea: valutare la forza di un desiderio. Per entrare in un regime marziale che davanti ai cancelli, ogni giorno, vedeva assembrarsi 1.500 persone, non servivano proclami, ma forza di volontà».
Ora Franco non c’è più.
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«E non riesco a crederci. Dopo tre anni nella comunità di Don Mazzi, Franco era uscito dai suoi vizi. Aveva avuto l’ultima possibilità della sua vita e l’aveva colta. Non so se fosse veramente felice, ma stava bene. Aveva voglia di vivere e aveva compreso quanto fosse meraviglioso volare con i piedi per terra.
Si era trasferito a Pietrasanta, aveva trovato un lavoro stabile e mi venne a trovare alla vigilia di Natale. Passammo una serata bellissima, a ricordare le follie fatte insieme e poi ci abbracciammo. Si sistemò la sciarpa, fece un’ultima risata delle sue, con la voce roca mi salutò e lo vidi sparire con la sua andatura sempre in pencolo sistemandosi il ciuffo. Fu l’ultima volta che lo vidi».
Il suo libro è sincero.
«Perché penso che in tempi come questi l’unica cosa che serva è la verità. Non mi importa più niente del giudizio altrui o di come gli altri pensano che tu dovresti essere o parlare. Non ho più paura di niente, oggi. L’unica cosa che mi spaventa è perdere la mia serenità».
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Cosa le resta di lui?
«Mille ricordi, un libro di poesie con il suo nome in copertina, la sensazione che anche se troppo tardi, Franco che è morto ingiustamente, ha avuto la sua giustizia davanti al mondo. L’unica verità della sua triste vicenda è che non è morto per una dose eccessiva, ma per un’eccessiva dose di fiducia verso gli altri. Franco era stato più forte della droga e del destino. Era stato più forte di me e anche di se stesso. Inconsapevolmente, ci ha lasciato una grande lezione».
Quale?
«Che si può morire a testa alta, anche se hai un occhio storto e un polmone solo».
Giorgio Panariello
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