Massimo Gaggi per il “Corriere della Sera”
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Da piccola voleva darsi all'astronomia. Poi, crescendo, le preferì l'economia. Intanto, però, coltivava una passione per il giornalismo: lavori per l'ufficio stampa di Armani quando era ancora liceale, poi collaboratrice delle pagine di costume del Giornale di Indro Montanelli. A metà del suo percorso accademico mollò una prestigiosa università privata, la Bocconi, per passare ad architettura, al Politecnico: un mestiere che, una volta laureata, non eserciterà mai.
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Paola Antonelli, che da 29 anni lavora per una delle istituzioni culturali più acclamate del mondo, il Museo d'Arte Moderna di New York (Moma) e da quasi venti è la sua curatrice per il design e l'architettura, è arrivata a questo dream job che tanti le invidiano dopo esperienze formative a dir poco magmatiche. Che hanno plasmato il suo stile e la sua attività professionale: una ricerca febbrile nel corso della quale Paola ha assorbito elementi da un vasto spettro di discipline: dal design all'architettura, dalle scienze naturali alla tecnologia.
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Una voracità intellettuale che l'ha portata a far spaziare le sue ricerche, e le mostre del Moma, nei campi più disparati: dai videogame alla moda, passando per la devastazione dell'ambiente e perfino per il design della pasta. Vere e proprie cavalcate che hanno suscitato grande curiosità e che le sono valse, oltre a elogi entusiastici, anche qualche critica tagliante: «Sorry Moma» ha scritto, severo, il Guardian , «i videogame non sono arte».
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È per questo che da anni si porta dietro il soprannome di polpo curioso? «Ad affibbiarmelo» racconta lei, «fu la critica letteraria e d'arte Maria Popova. A una conferenza mi vide parlare e agitarmi: quando mi entusiasmo per un argomento tendo ad agitare le braccia. Alla fine mi disse che, saltando da una disciplina all'altra e muovendomi in quel modo sembravo una curious octopus . Una definizione che mi piacque subito e che ho adottato: è tuttora il mio nome utente su Twitter».
Bocconiana mancata, architetto che non ha mai fatto l'architetto nemmeno per un giorno: un bel temperamento inquieto. Che deve aver lasciato senza fiato i suoi genitori.
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«Sono sempre stata una pentola a pressione» conferma lei, «un misto di curiosità, voglia di sperimentare e anche d'indecisione. Ogni volta ero lì a nuotare controcorrente, a cercare di prendere bene le onde, a rischiare di essere trascinata al largo.
I miei sono stati pazienti: mi hanno sempre sostenuto ma, certo, erano sconcertati. Soprattutto mio padre, chirurgo e docente universitario. Talmente concreto che quando ero bambina mi dava lezioni di scienze naturali facendomi assistere agli interventi in sala operatoria. Ai suoi occhi architettura era la scelta tipica di chi non aveva voglia di fare nulla».
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E, invece, fu la svolta che portò la Antonelli ad essere celebrata da Time come una delle donne più influenti nel mondo dell'arte. Ma il Moma non arrivò subito.
Lasciata cadere l'architettura, secondo lei «un mestiere fatto al novanta per cento di attività diplomatica e che richiede grande pazienza nell'attesa di risultati concreti che si vedranno solo dopo cinque o sei anni», l'America le aprì le porte nel 1989 con l'invito a organizzare parte della International Design Conference di Aspen, quell'anno dedicata all'Italia.
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Da lì, spinta anche dall'amore - un boy friend, ora marito, professionista americano che allora viveva a San Francisco - arrivò sulla West Coast dove la University of California di Los Angeles le offrì una posizione accademica: «Tra anni e mezzo belli ma faticosi divisi a metà tra l'insegnamento in America e Milano, dove lavoravo per le riviste Domus e Abitare. Passando sempre da New York perché allora non c'erano voli diretti dall'Italia per la California. Fino a quando, guardando gli annunci su I.D.magazine, trovai l'offerta di un posto da assistant curator al Moma: è stata la svolta della mia vita».
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Desiderosa di uscire dagli schemi, di proporre punti di vista nuovi, affascinata dalla tecnologia, dedicò la sua prima mostra importante al Moma, nel 1995, ai nuovi materiali, Mutant Materials in Contemporary Design: un viaggio nell'innovazione ma anche nella capacità umana di plasmare perché quando si comincia a usare un nuovo materiale «non ci sono macchine pronte a trattarlo, tornano essenziali le mani».
Ma l'esposizione che ha nel cuore più di tutte le altre è milanese, non newyorchese: Broken Nature, la manifestazione della Triennale del 2019 arrivata al Moma solo quest' anno: riflettere attraverso il design sulla devastazione dell'ambiente.
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«Rivalutando» spiega lei, «la cultura della riparazione delle cose che noi in Italia abbiamo ma qui in America è sconosciuta: imparare a riparare tutto, un calzino come un forno a microonde, anziché buttare via subito, ammassando rifiuti. Presentai il progetto al Moma nel 2013, ma la mia proposta non fu accettata. La Triennale, invece, ci ha creduto ed è stata per me un'esperienza straordinaria ed emozionante, dalla conversazione sul palco col presidente Mattarella agli incontri coi ragazzi che tra uno sciopero scolastico e un corteo venivano a centinaia alla Triennale a discutere».
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Da qualche anno, oltre che curatrice per il design, la Antonelli è anche direttore R&D del Moma: ricerca e sviluppo, come i grandi gruppi industriali? «Non proprio» sorride lei. «È soprattutto un modo per cercare di fare dei musei un luogo di ricerca e sviluppo della società. E, mutuando il linguaggio delle imprese e dell'economia, è anche un tentativo di dire alla politica che è sbagliato, quando i conti pubblici sono in difficoltà, tagliare cominciando sempre dalla cultura. Non parlo di Italia in particolare: è successo anche qui in dopo il crollo di Wall Street del 2008».
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Questa direzione R&D le consente anche di sviluppare manifestazioni a tema più frequenti, di giocare coi segni dei videogiochi, di immaginare nuovi modi di applicare il design e il digitale alla progettazione delle città, di studiare le intersezione tra arte e tecnologia. Musica e arti figurative create dall'intelligenza artificiale?
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«Non so se è giusto, ma non ho pregiudizi. Voglio approfondire, così come mi appassiona ciò che accade nella tecnologia: mi affascina l'innovazione, ma mi preoccupano le strutture di potere che queste nuove forze sono in grado di costruire. Noi qui possiamo solo cercare di aiutare chi entra in un museo a sviluppare strumenti di analisi critica».
Un sogno nel cassetto che non si è realizzato? Ricordo che sognava un jumbo jet del Moma. «Non per esporlo: ne volevo uno che portasse i colori e i disegni del Moma in giro per il mondo. Complicato: non si trovò l'accordo con le linee aeree. E ormai di Boeing 747 non ce ne sono più molti». Però ci sono ancora gli Airbus A 380, ancora più grandi: «No - taglia corto la Antonelli -, sono tutta un'altra cosa: il fascino del design stava nella gobba del 747».
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