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    PITAGORA, E ALLORA MAMBOR! L'ATTRICE PAOLA PITAGORA RACCONTA LA SUA STORIA D’AMORE CON RENATO MAMBOR, PITTORE DELLA SCUOLA ROMANA DEGLI ANNI SESSANTA – "MI TRADIVA SPESSO, UNA VOLTA ANDAI FUORI DI SENNO E BUTTAI IL MATERASSO DALLE SCALE" - "IO OGNI TANTO MI PRENDEVO DELLE COTTE PER ATTORI AFFASCINANTI, PERÒ GLIELO ANDAVO A RIFERIRE...” – IL PUGNO DI MASTROIANNI, PAOLA BORBONI NUDA CHE LE PORGE UNA IMMAGINE SACRA, LA SCELTA DEL NOME D'ARTE E QUELLA VOLTA CHE NEL 1969 SI ADDORMENTÒ AL CONCERTO DI BOB DYLAN SULL’ISOLA DI WIGHT: “GIRAVANO DEI CANNONI, ACCETTO DI FARE UN TIRO E, INVECE DI ECCITARMI…”


     
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    Emilia Costantini per il “Corriere della Sera” - Estratti

     

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    Cominciamo dalla scelta del nome d’arte...

    «Il mio vero cognome è Gargaloni — risponde Paola Pitagora — ma sin da ragazzina, alle elementari, venivo presa in giro. Quando la maestra faceva l’appello e pronunciava Gargaloni, i compagni esclamavano in coro: Gargarozzo!».

     

    Chi le ha consigliato di cambiarlo?

    «Molti anni dopo, quando ho iniziato il mestiere d’attrice, fu Renato Mambor, mio fidanzato all’epoca, a suggerirmi il cambiamento. Per gioco mi dette un consiglio, rivelatosi prezioso, dicendomi: piatta di seno come sei, potresti chiamarti tavola pitagorica... e, per un breve periodo, adottai il cognome Pitagorica, in realtà decisamente ridicolo. Così, mentre facevo un provino per il produttore Cristaldi, nel suo studio a piazza Pitagora, decisi di accorciare».

     

    Mambor un artista visivo, pittore della celebre Scuola romana degli anni Sessanta: quando e come vi siete conosciuti?

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    «Nel 1958, perché anche Renato, molto prima di affermarsi come pittore, veniva nella mia stessa scuola di recitazione. Cominciammo a frequentarci e con lui ho scoperto quel mondo affascinante di artisti della pop art: li ascoltavo parlare, litigare, discutere, si amavano, si odiavano... un linguaggio colto, il loro, non osavo aprire bocca.

     

    Li seguivo ovunque, anche quando ci sedevamo sugli scalini della Chiesa degli Artisti a piazza del Popolo, davanti al bar Rosati. Non avevamo soldi, non potevamo permetterci nemmeno di consumare un caffè, troppo caro per le nostre tasche, però si facevano incontri affascinanti con Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, Dacia Maraini...».

     

    Quanto è durata quella storia d’amore?

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    «Circa una quindicina di anni, tra alti e bassi. Lo adoravo, ma mi tradiva spesso e una volta mi arrabbiai di brutto. Avevo commesso l’errore di fargli una sorpresa: suono il campanello del suo studio e sento internamente un tramestio. Mi insospettisco. Riesco a entrare e mi trovo davanti al “letto del peccato” dove aveva accolto la ragazzetta di turno e, da grande vigliacco, si era dileguato con lei da un ingresso secondario. Vado fuori di senno: acchiappo il materasso e lo scaravento giù dalle scale».

     

    Lei non lo ha mai tradito?

    «Ogni tanto mi prendevo delle cotte per attori affascinanti con cui lavoravo, però con grande onestà glielo andavo a riferire... e accadeva lo psicodramma».

     

    Come siete finiti a essere scritturati addirittura da Federico Fellini ne «La dolce vita»?

    «Un vero e proprio caso. Il padre di Renato aveva un distributore di benzina a Roma e lui, ogni tanto, per arrotondare, faceva anche il benzinaio. Era elegante, vestito con una tuta celeste, inoltre lui aveva gli occhi celesti.

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    Un giorno si presenta a fare benzina il grande regista che, chissà come mai, è rimasto affascinato da tutto quel celeste... gli fa la proposta di partecipare al film e, siccome gli serviva pure una ragazza, Renato gli propose di portare la sua fidanzata, cioè io. Ovviamente facevamo una comparsata, però con un cachet da far girare la testa: 15 mila lire ciascuno al giorno! E chi l’aveva mai visti tanti soldi insieme? Si lavorava solo di notte a Caracalla, partecipammo alla favolosa scena in cui Anita Ekberg si lancia in un ballo sfrenato, dove compare anche un Adriano Celentano ancora del tutto sconosciuto».

     

     

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    Una sterzata radicale, ma fortunata, che negli anni la porterà a lavorare con famosi registi: al cinema da Gillo Pontecorvo a Marco Bellocchio, da Luigi Comencini a Luciano Salce; e a teatro debutta con Luigi Squarzina addirittura da protagonista nella parte di Artemisia Gentileschi.

    «Una responsabilità immensa. Il grande regista mi ripeteva categorico: quando reciti, devi pensare a quello che dici. Fu allora che compresi di aver intrapreso una strada non facile, in un mestiere serio».

     

    La svolta mediatica avviene in tv, ovviamente, con lo sceneggiato di Sandro Bolchi i «Promessi sposi», nel ruolo di Lucia Mondella al fianco di Nino Castelnuovo in quello di Renzo Tramaglino.

    «Non pensavo mai che sarei stata scelta, non ero preparata a quella popolarità che mi cambiò la vita. Quando me lo proposero non ero per niente convinta, non mi sentivo adatta al ruolo manzoniano.

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    Ero un’anticonformista e oltretutto in quel periodo stavo vivendo un momento di totale esaltazione. Recitavo al Sistina nella commedia musicale “Ciao Rudy” in un cast eccezionale, a cominciare da Marcello Mastroianni: io impersonavo un’ammiratrice pazza di Rodolfo Valentino».

     

    Era una fan pazza anche di Mastroianni?

    «E come non esserlo, era bellissimo! Però Marcello era molto riservato, niente a che vedere con il latin lover. Inoltre aveva una sua fragilità interiore. Ricordo che una sera sedeva in platea al Sistina Sophia Loren e lui era talmente nervoso, in apprensione per quella presenza, che durante un suo monologo ruppe col pugno uno specchio. Evidentemente era andato fuori di testa».

     

    I rapporti con gli altri protagonisti del cast?

    «Ottimi. Il mio camerino era vicino a quello dell’allora giovanissima Raffaella Carrà, un portento, e di Paola Borboni, che mi ha insegnato tanto: era divertentissima e fu proprio Paola a farmi accettare la proposta di Bolchi».

     

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    In che modo?

    «Una sera, durante una pausa dello spettacolo, mi intrufolo nel suo camerino, dove era sempre nuda. Le chiedo consiglio e lei si toglie una catenina dal collo, mi porge l’immagine sacra e mi impone perentoria: “Bacia la Madonna, hai una palla di fuoco tra le mani, giocatela bene!”. E così fu...».

     

    Però, a proposito di musica, un’anticonformista come lei nel 1969 si è addormentata al concerto di Bob Dylan sull’Isola di Wight. Com’è stato possibile?

     

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    «Un’avventura. Mi ero unita a un gruppo di amici, tutti italiani, ed eravamo riusciti ad accedere al concerto senza pagare il biglietto. All’inizio ci avevano sistemati dietro al palco, poi non so per quale motivo ci spostano in prima fila. Vicino a me sedevano Jane Fonda, John Lennon, Yoko Ono... roba da perdere la testa... Anche perché giravano delle “canne” che sembravano cannoni! Accetto di fare un tiro e, invece di eccitarmi, cado in un sonno profondo. Mi sono risvegliata agli applausi finali».

     

    (…)

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