Giuseppe Alberto Falci per https://www.fondazioneleonardo-cdm.com/
«Vulnerabili» è il titolo dell’ultimo libro di Paolo Crepet. E «vulnerabili» siamo noi nei giorni della seconda ondata di Covid-19, della serrata di ristoranti e bar alle 18, dei centri abitati ormai deserti, delle libertà individuali ridotte ai minimi termini.
Professore Paolo Crepet, è così?
paolo crepet
«Siamo molto vulnerabili ma io l’ho scritto in senso positivo».
Ci spieghi meglio.
«Il contrario della vulnerabilità è l’arroganza ed è una cosa terribile. Nel corso degli anni dicevo sempre agli studenti che incontravo: “Andate a leggere le biografie dei vostri miti e lì troverete il dolore”. Non esiste artista che non sia stato contaminato dal dolore».
Ma tutto questo cosa c’entra con la pandemia?
«Eccome se c’entra. Perché la vulnerabilità è un valore aggiunto. E ora che ci troviamo nel pieno della seconda ondata è necessario riuscire a scalfire la carrozza che ci eravamo messi addosso di superman e wonder woman».
Tradotto, Covid potrebbe addirittura migliorare la nostra vita?
piemonte covid
«Mettiamola così: se Covid fa piangere Massimo Cacciari vuol dire che migliora. È questo lo dico con il massimo rispetto per il filosofo, che stimo, apprezzo, ascolto. Io non mi fido degli uomini di potere, degli intellettuali, che non piangono».
Se da un lato l’umanità ha sempre dato il meglio di sé nei momenti peggiori, dall’altro le opportunità che abbiamo oggi – perfino la facilità tecnologica e l’agio sociale – non riescono ad aiutarci in un minimo di cambiamento. Cosa sta succedendo?
«Io credo che la pandemia sia stata un grande occasione per fare un esperimento di portata ciclopica».
Quale?
covid
«In un colpo tutti hanno dovuto utilizzare la tecnologia digitale. Pensi alla figura del nonno, costretto a dotarsi di uno smartphone per vedere il nipotino. O pensi allo studente, che per la prima volta ha usato l’Iphone non solo per flirtare con la fidanzatina ma anche per seguire una lezione di italiano. È questo l’uso di massa della tecnologia digitale, è questo che ci ha permesso di vedere i difetti, che mai sarebbero emersi. Per esempio la didattica a distanza è una ottima cosa, in una fase emergenziale. Guai però a sdoganarla».
Per non parlare di un’altra parola, che è entrata a far parte del nostro lessico: smart working.
«Mettiamo che lei sia un dirigente Fca, della Fiat. Per decenni il cosiddetto quadro del Lingotto era colui che entrava dal cancello di viale Marconi a Torino. Quel luogo ti caratterizzava, ti forniva l’identità. E lo stesso valeva per l’operaio che indossava una tuta con su scritto Fiat. Ma adesso il dirigente della casa automobilistica lavora da remoto e ne viene meno l’identità. Come fai a dire io lavoro per la Fiat? La trasformazione antropologica è nell’aria. Però ci possono essere delle sorprese».
A cosa si riferisce?
«Le faccio un esempio. Nel 1929 a Wall Street cade tutto. Si tratta di una pandemia breve ma drammatica. Tra l’altro corrisponde a un picco di suicidi».
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Dove vuole arrivare con il parallelo con la crisi del ’29?
«Semplice. Succede che a New York, epicentro del cataclisma, arrivano i più grandi architetti, vuoi perché in fuga dalla Germania nazista, vuoi perché attirati da questa città. In quel contesto nasce lo skyline, in quel contesto iniziano a spuntare i grandi grattacieli, quasi come una necessità di rimuovere il grande danno. Dalla catastrofe nasce una città mito».
Ne consegue che uno sviluppo del genere si verificherà nel post Covid?
«Troppo presto per dirlo. Ma di sicuro il dolore smeriglia il cervello».
Nell’attesa di scoprirlo, accade che una pandemia con una percentuale di letalità al 2 per cento spinge la società occidentale al suicidio.
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«Adesso siamo al terzo livello, alla depressione: siamo all’incapacità di vedere una speranza. Questo non dipende dal virus, dipende dalle condizioni mentali di ognuno di noi. Da una parte c’è chi chiude il negozio, chi perde il lavoro. Dall’altra l’idea che abbassino la saracinesca le vecchie trattorie è un altro elemento di instabilità. D’altronde, chi di noi non ha una trattoria di riferimento?».
Non ci resta che la nostra casa.
«E la casa, purtroppo, è brutta. Perché nel frattempo in quel cambiamento antropologico di cui sopra le nostre abitazione sono mutate. Le racconto un aneddoto».
Prego.
cacciari dito medio
«Tanti anni fa feci un libro con l’architetto Mario Botta. Titolo: “Dove abitano le emozioni”. E proprio Botta mi disse: “Sai cosa mi dicono i miei allievi? Nella progettazione delle case ai più giovani non gliene frega più niente della sala pranzo, del soggiorno, ma gli importa solo del bagno”. Per dire, eravamo già in una fase solipsistica».
Dunque, le case sono brutte?
«Esatto. E questo non ci basta più».
paolo crepet