Marco Demarco per il “Corriere del Mezzogiorno”
vincenzo de luca
L’alternativa al sinistrese può essere il parlare come si mangia o, meglio, come si prepara un bel piatto di pasta aglio olio e peperoncino? Il dibattito è aperto, la soluzione lontana. «Il rischio del parlare semplice è quello della banalità», dice De Luca nel suo ultimo libro. Dove dice anche, però, che questo rischio bisogna correrlo «se ti consente di collegarti con le persone normali o almeno di farti ascoltare». Vedi Giorgia Meloni.
Per il governatore della Campania, solleticato dall’idea di dare la scalata ai vertici del Pd, il modello è l’avversaria esterna ( da non confondere con quella interna, Elly Schlein), perché la sua - di Meloni - «è una lingua normale, come quella parlata dal 90 per cento dei cristiani normali di ogni orientamento politico».
Dì più: «È una lingua a volte arrogante, ma in generale gradevole nella forma. E comunque ascoltabile, diversamente da quella della sinistra ‘pipì’». Che poi sarebbe la sinistra al cachemire di Bertinotti o quella fighettista (e non riformista) che tanto fece infuriare Zingaretti e ancor prima Nanni Moretti (che la voleva, però, ancora più radicale). Ma vuoi mettere come l’ha immortalata De Luca? Via i giri di parole e via anche gli abusati neologismi. Due sole sillabe, pi-pi, e il concetto è chiaro, semplice, fluidamente reso, verrebbe quasi da dire. È questo il suo modo di tirarsi fuori dal sinistrese, dal linguaggio che in nome della trascendenza e dell’utopia non ha mai smesso di rivelarsi orgogliosamente elitario e, come si diceva un tempo, irriducibile a un’unica dimensione funzionale.
elly schlein chiara valerio
Si spiega, allora, l’affondo contro chi ancora parla come ai tempi di Adorno e Horkheimer. «Alla mancanza di contenuti programmatici, di semplici proposte, di iniziative di governo, si è aggiunto progressivamente - scrive De Luca - l’uso di un linguaggio gergale, incomprensibile, mitico-allegorico, e in ultima analisi, sconosciuto ai più; incapace di suscitare adesione sentimentale, sintonia comunicativa.
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E poi sempre chiamandosi per nome (Nicola, Enrico, Stefano, Dario, Pasquale, e oggi Elly) solo per dimostrare che si era diventati moderni, in grado ormai di competere con i Foffo, i Lillo, i Geppy, dell’alta borghesia o della nobiltà dei salotti romani». Sembra quasi di sentire le voci dei film dei Vanzina, i gorgheggi impostati di certi parvenu in cerca di avventure. Difficile essere più sprezzanti ed efficaci al tempo stesso. Il problema interno al Pd, però, è che queste cose il governatore campano le va dicendo da tempo, mentre il divario linguistico, invece di ridursi, addirittura aumenta.
Ha fatto rumore il «ma chi la capisce se lei parla così?» di Gruber a Schlein. Ma ora siamo già oltre, al monologo sul peperoncino, appunto, pronunciato dalla scrittrice e matematica Chiara Valerio sul palco della manifestazione romana del Pd contro il governo.
VINCENZO DE LUCA ALLA PRESENTAZIONE DEI PALINSESTI RAI
(...) «Tutte le persone che conosco - ha detto Valerio - sanno cucinare pasta aglio olio e peperoncino (…). Tutte le persone che conosco sono capaci di giudicare se la pasta aglio olio e peperoncino di uno è meglio o peggio di quella di un altro».
E allora? Cosa serve? La risposta: «Una cultura e una politica del dissenso, dell’eccezione, della variazione che assomigliano all’aglio e olio che facciamo tutti. Si potrebbe parlare di polenta, arancini, arancine, arancinu, porchetta e fave e cicoria. Nella cucina non c’è segregazione, autonomia differenziata, premierato... Io dico che dobbiamo essere ciascuno come aglio olio e peperoncino».
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Tutto chiaro? Non proprio. A parte lo sberleffo di Dagospia, di Travaglio e di molti altri non di destra; a parte la metafora coraggiosa ma senza amalgama, cucinata male e impiattata peggio, dov’è la folgorante sintesi deluchiana? Dove la potenza dei suoi bisillabi?
Forse sarebbe stato meglio mobilitare non Chiara Valerio ma uno come Fabio Volo, uno che è in testa in tutte le classifiche dei libri più venduti perché, come diceva Calvino, i libri li fa «come una pianta di zucca fa le zucche»; uno le cui frasi, a detta di Walter Siti, non proprio un incompetente, insomma, «si snodano tranquille» e che «non fa finta di essere uno scrittore pensoso, ma è davvero a livello dei propri elettori».
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Tuttavia è ovvio che il problema non può ridursi a chi affidarsi, a Valerio o Volo. Il problema è che una volta la sinistra era obbligata a parlare difficile, perché si muoveva in un orizzonte rivoluzionario e quindi doveva descrivere un mondo nuovo da costruire, per il quale ancora non c’erano parole e concetti che potessero aiutare a immaginarlo.
«Il linguaggio unificato, funzionale, è un linguaggio irrimediabilmente anticritico e antidialettico», diceva Marcuse. Ma oggi? Nessuna rivoluzione è alle porte.
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(...) De Luca sa queste cose perché è un ex rivoluzionario o perché (e non solo agli occhi della sinistra pipì) è diventato un neo-conservatore? E si sa ben spiegare perché crede davvero in quel che dice o perché anche lui (come Meloni, del resto) è un esperto di eristica, ovvero di quella parte della retorica che rende accettabile qualsiasi argomento e dunque qualsiasi contraddizione?
Il che almeno a una conclusione ci porta: parlare semplice è necessario, per i politici è addirittura un obbligo, tanto più nell’era delle competenze specialistiche e dell’accelerazione tecnologica, quando i riferimenti sfuggono e gli eventi ci sommergono. Ma non basta. Perché a parte le parole semplici e le tecniche di persuasione, poi ci sono i fatti. E anche questi parlano.
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