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    “LA POLIZIA È MARCIA E DA ALLORA NON E’ CAMBIATO NIENTE” - PARLA FRANK SERPICO, L’AGENTE CHE DENUNCIÒ LA CORRUZIONE DELLA POLIZIA DI NEW YORK E LA CUI STORIA DIVENNE UN FILM CON AL PACINO: “QUEL TIPO CHE HA UCCISO FLOYD NON SAREBBE MAI DOVUTO DIVENTARE UN POLIZIOTTO - IL MIO TENENTE MI RIMPROVERAVA: "QUANDO PARLIAMO DI NERE, LO STUPRO NON ESISTE". UNA VOLTA MI CAPITÒ DI AIUTARE UNA RAGAZZA DI COLORE A PARTORIRE, E QUANDO USCII IL MIO CAPO MI DISSE: "NON SAREBBE STATO MEGLIO SE AVESSI BUTTATO QUELLA COSA NELLA SPAZZATURA?"


     
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    Enrica Brocardo per “il Venerdì di Repubblica”

     

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    Uscito nel 1973, Serpico, il film diretto da Sidney Lumet e interpretato da Al Pacino, era quasi un instant movie. Il vero agente del dipartimento di polizia di New York del quale raccontava la storia aveva lasciato la divisa solo sei mesi prima, dopo essere sopravvissuto miracolosamente a una sparatoria. Il 3 febbraio 1971, durante un' irruzione nell' appartamento di uno spacciatore, era stato colpito in faccia da un proiettile. Il sospetto - ma non ci fu mai un' indagine - è che si fosse trattato di un agguato organizzato dagli altri agenti per eliminarlo.

     

    Da anni, cercava infatti di denunciare la sistematica corruzione in tutte le sezioni del dipartimento. Da allora, Frank Serpico, figlio di immigrati da Marigliano, nel Napoletano, è diventato un simbolo: un eroe per la gente, e il primo degli infami per molti poliziotti. «Diciamo che ancora oggi la polizia di New York non nutre esattamente rispetto nei miei confronti» ci conferma lui al telefono dalla sua casa in campagna, nel Nord dello Stato di New York.

     

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    Nella sua seconda vita, Serpico ha sostenuto moltissime iniziative con l' obiettivo di denunciare gli abusi delle forze dell' ordine. E ancora oggi, a 84 anni, continua la sua battaglia. Recentemente su Twitter ha postato decine di messaggi sull' omicidio di George Floyd, l'afroamericano ucciso da un poliziotto bianco il 25 maggio a Minneapolis. «La violenza e il razzismo fanno parte dello stesso sistema corrotto» ci dice. Poi ricorda un episodio che risale a quando era ragazzino.

     

    «Avevo 13 o 14 anni, facevo il lustrascarpe all' angolo tra Eastern Parkway e Franklin Avenue, un quartiere ebraico a Brooklyn. Di neri in giro non ce n'erano. Una sera vidi una donna di colore, esile, non più giovane. Era sdraiata su una panchina e un poliziotto bianco la stava picchiando con il manganello. Ancora oggi ricordo il rumore dei colpi. Lei non emetteva un suono. Credo che sia stata una delle ragioni per cui, anni dopo, entrai in polizia».

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    Da agente ha assistito a molti episodi di razzismo?

    «Nei primi anni mi capitava spesso di fare arresti per stupro, le vittime erano per lo più afroamericane. Il tenente mi rimproverava: "Perdi tempo. Quando parliamo di nere, lo stupro non esiste". Una volta, invece, mi capitò di aiutare una ragazza di colore a partorire, e quando uscii il mio capo mi disse: "Non sarebbe stato meglio se avessi buttato quella cosa nella spazzatura?".

     

    E, ancora, un giorno in cui ero di pattuglia, vidi una casa avvolta dalle fiamme, riuscii a mettere tutti in salvo, compresi bambini e neonati, prima dell' arrivo dei vigili del fuoco. Invece di farmi i complimenti, mi ripresero perché ero in ritardo. Erano due famiglie di afroamericani».

     

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    Gli agenti neri come reagivano a un ambiente del genere?

    «Alcuni di loro erano più violenti e brutali dei bianchi. Per loro era ancora più importante riuscire a far parte del "club". Una volta, mi misero in coppia con un sergente nero. Appena salito in macchina, mi disse: "Dove posso tirar su 50 dollari al volo?". Gli risposi: "Non so se le banche sono aperte". Quella stessa persona divenne capo di una divisione che per anni ha fatto i soldi sul sangue degli afroamericani. Un'altra volta mi trovai a lavorare in borghese con un agente di colore. Era peggio dei colleghi bianchi, sapeva muoversi meglio tra la sua gente, sapeva come alzare il prezzo».

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    Da allora che cosa è cambiato?

    «Niente. Oggi abbiamo David Clarke, l' ex sceriffo di Milwaukee, un nero, forte sostenitore di Donald Trump che, da anni, dice che la violenza nella polizia non esiste. Ma guardare un bianco che tiene il ginocchio sul collo di un afroamericano per otto minuti fino a farlo soffocare è stato troppo. Chi protesta vuole cambiare la legge che consente a un poliziotto di ammazzare senza ragione e senza essere punito. Gli basta dire: "Mi sono sentito minacciato". Una regola che funzionerebbe se non ci fossero agenti disonesti e corrotti».

     

    Grazie alle telecamere dei cellulari, però, mentire è diventato più difficile.

    «È vero. Oggi internet è piena di filmati di atti brutali che prima non sarebbero mai stati scoperti. Nel 1999 la polizia di New York assassinò Amadou Diallo, un uomo di colore. Stava davanti alla porta di casa, gli spararono 41 colpi e riuscirono a insabbiare la vicenda.  Un agente del dipartimento di polizia di New York, Adrian Schoolcraft, aveva registrato i suoi superiori mentre ordinavano di dare la caccia a latini e neri. Riuscirono a farlo internare in un ospedale psichiatrico dicendo che soffriva di problemi mentali. È successo una decina di anni fa».

     

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    Il razzismo della polizia è solo un riflesso della società o c'è un problema specifico?

    «Robert Cattani, tenente della polizia di New York, bianco, dopo essersi inginocchiato di fronte alla folla che protestava per l' uccisione di George Floyd, ha mandato un' email ai colleghi per chiedere scusa. Ha scritto: "Il poliziotto che c'è in me mi prenderebbe a calci".

    È sintomatico di una cultura diffusa: molti pensano che il loro compito sia prendere a calci qualcuno. Seguono la logica del noi contro loro, dove loro è la società. Si riferiscono alle persone, in generale, chiamandole "gli stronzi". Molti non lavorano in zone particolarmente problematiche, ma tutti amano dire che ogni giorno rischiano la vita».

     

    Qualche tempo fa ha detto che anche l' eccesso di equipaggiamento e di armi troppo potenti fanno parte del problema.

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    «Quando ero in polizia, le cartucce che avevamo in dotazione erano 38 Special. Oggi la polizia è dotata di armi calibro 40. Se hai un equipaggiamento simile a quello di un soldato finisci per pensare e comportarti come se fossi in guerra. E i tuoi nemici sono le persone che dovresti proteggere».

     

    Perché George Floyd è stato ucciso?

    «Una serie di ragioni. Intanto, il razzismo. La gente dice: "Non sono razzista, ho fatto sesso con una nera". Oppure: "Sono andato a letto con un' asiatica". E ci credono davvero. C' è stato un tempo in cui noi italiani eravamo i barbari. La differenza è che il colore della pelle non lo puoi nascondere. Non ci sono molti bianchi che si svegliano la mattina e dicono a se stessi: "Cosa posso fare per fermare la violenza contro gli afroamericani?". Ma tutti i neri si svegliano la mattina e si domandano: "Oggi verrò picchiato da un poliziotto?"».

     

    Le altre ragioni?

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    «Ci sono persone troppo codarde per darsi al crimine e, così, diventano agenti. La polizia usa sempre la stessa scusa: "Si tratta di poche mele marce". Ma il punto è che la selezione non è adeguata, perché invece di individui capaci di pensare con la propria testa, vogliono gente che esegua gli ordini senza discutere. Quel tipo che ha ucciso Floyd, non mi va neppure di dire il suo nome, non sarebbe mai dovuto diventare un poliziotto. Era in servizio nonostante 17 lamentele per il suo comportamento. Tipi come lui pensano di essere giudice, giuria e esecutore. Ma la vera questione è che a non funzionare è l' intero sistema della giustizia».

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    Che cosa intende?

    «Lo scorso 18 giugno Christopher Howell, 51 anni, la capacità intellettiva di un bambino, è stato picchiato a morte dalle guardie mentre era ammanettato nella sua cella. Aveva rubato alcuni caricabatterie per cellulare, valore totale circa 50 dollari e per questo era stato condannato a quattro anni. Beh, sa che cosa le dico? Che il giudice che ha emesso quella sentenza dovrebbe essere incriminato per omicidio insieme alle guardie».

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