Estratto dell’articolo di Luca Monaco per “La Repubblica”
suicidio assistito
«Pur nel grande dolore, io non sono contrario alla libertà di autodeterminazione delle persone, non mi sarei opposto alla decisione di mia moglie di morire se avessi avuto la certezza che questa fosse stata davvero ponderata e sedimentata».
Parla a Repubblica dal Canada, dove vive da alcuni anni per ragioni professionali, Alberto, ingegnere di 53 anni, marito di Marta, la compagna di una vita che il 12 ottobre scorso, all’insaputa di tutti i suoi cari, ha scelto di morire ricorrendo al suicidio assistito in una clinica svizzera a 15 minuti dal centro di Basilea. La donna era caduta in depressione dopo la scomparsa del figlio adolescente, mancato a gennaio 2023 dopo una lunga malattia.
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Alberto, a luglio 2023, lei e sua cognata avete scoperto che Marta aveva avviato i contatti con quella clinica. Siete corsi in Svizzera e l’avete fermata. Cosa le disse sua moglie in quella circostanza?
«Che non sopportava di vivere senza nostro figlio, e che l’amore per me, per quanto grande, non le era sufficiente a sostenere il dolore che provava. Poi però ci aveva fatto capire di averci ripensato.
Si era rivolta a uno specialista, aveva contemplato la possibilità di frequentare “La stanza del figlio” un’associazione per il sostegno dei genitori che hanno perso i figli. Noi due ci sentivamo tutti i giorni per telefono, mi rassicurava che tutto stesse andando bene, la vedevo molto impegnata nel lavoro. Li coglievo come segnali positivi».
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Alla luce del dolore di sua moglie per la morte di vostro figlio, non la preoccupava la distanza geografica tra di voi?
«Un evento di questo tipo crea enormi sensi di colpa, credo in qualunque condizione. Noi eravamo stati insieme a Torino fino a un mese prima, poi non potendo più sospendere oltre i miei impegni di lavoro sono dovuto tornare in Canada, con l’accordo che sarei rientrato in Italia prima di Natale, per stare di nuovo insieme alcune settimane».
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Come la percepiva di umore?
«Essendo colleghi, parlavamo sia di questioni di lavoro che di interessi comuni. La sapevo attorniata da amici carissimi, ai quali chiedevo informazioni, che non avevano colto alcun segno di stanchezza della vita.
Anzi, usciva, andava a mangiare fuori, parlava con passione degli argomenti che la interessavano. Non immaginatevi una donna chiusa in casa tutto il giorno. Certo, era molto provata, ma riusciva a consolare un amico in difficoltà». […]
Quando l’ha sentita l’ultima volta?
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«Tre giorni prima che mancasse. Per due o tre giorni non ha risposto ai miei WhatsApp, ma sapevo che era molto impegnata nel lavoro, avevo ricevuto notizie positive dai colleghi sul fatto che fosse lanciata in un nuovo progetto. Immaginavo che me ne avrebbe parlato, come sempre, finite le giornate più intense.
Il collega che l’ha incontrata per ultimo, due giorni prima, mi ha detto che avevano passato ore a discutere di un problema tecnico, che lei era felice di aver trovato la soluzione. Tutto avremmo immaginato tranne che avesse già in tasca il biglietto del treno per Basilea».
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Lei ha saputo di aver perso sua moglie con una mail finita nello spam.
«Incrociando gli orari, a cose fatte ho potuto ricostruire che un’ora prima della morte avevo ricevuto una sua e-mail di commiato da un indirizzo di posta elettronica che non era il suo, per questo era finita in spam».
L’associazione quando l’ha avvisata?
«Giorni dopo mi hanno spedito per mail il certificato di morte, senza specificare le cause. Ma sapevo già tutto, grazie alle autorità italiane che mi hanno messo in contatto con l’agenzia di pompe funebri […]
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Marta ha lasciato il pc e il telefono a casa, scrivendo da numeri e indirizzi non suoi. Non sapremo mai se è stata una sua scelta autonoma o se è stata frutto di una indicazione della associazione per evitare che fosse rintracciata e quindi indotta a ripensarci all’ultimo momento».