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Il peso della vita si misura in leggerezza. «Qualche tempo fa ho chiamato al telefono mia zia per farle le condoglianze per un parente scomparso. Lei mi ha risposto: ti sei proprio imborghesita. È il nostro modo di provocarci, di volare sopra gioie e dolori». 31 anni, Elodie Di Patrizi, al secolo Elodie, è un fenicottero dai piedi di piombo, una creatura che il destino ha dotato di grandi ali e di altrettanti grandi pesi sulle zampe. I pesi le vengono consegnati presto, mentre è ancora bambina: il padre si arrangia cantando per strada mentre la madre raccoglie i soldi con un cappello. Sull’automobile, una via più in là, lei e la sorellina aspettano che tornino.
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È una delle tante istantanee di un’infanzia tra i palazzi del Quartaccio, periferia di Roma, in mezzo a violenze e abbandoni, una solitudine sociale e famigliare da cui però si emancipa con ostinazione e coraggio, fuggendo prima a Lecce, dove lavora come cubista, e poi a Milano, dove intraprende il sogno proibito: diventare una delle cantanti più stimate d’Italia, capace di scalare classifiche, radio e festival come poche altre.
La sua storia è un romanzo popolare a lieto fine. Ma è vero che si è imborghesita?
«Non lo so, forse sì. Resta solo una sicurezza: la mia famiglia è un clan di personaggi stile Modern Family».
Il personaggio più bizzarro?
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«Mia nonna. Rigida, ordinata, severa. Un generale. Però le piace fare festa, è proprio sudamericana, vive in Italia da quarant’anni e parla ancora francese (è creola originaria della Guadalupa, ndr). È criptica e non posso dire di conoscerla veramente. Credo di somigliarle molto».
In che cosa?
«Siamo entrambe severe. Il mio modo di vedere le cose è duro, forte. Non lo impongo mai agli altri, ma lo difendo sempre. Creo sempre delle distanze nette. E chi si avvicina a me, lo fa perché è altrettanto forte».
E chi non si avvicina?
«Forse ha paura. E la paura mi infastidisce. Il timore delle persone non mi piace. Ma non va confuso con l’educazione. La paura è il freno a mano della vita».
Lei ha mai avuto paura?
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«No. Però forse avrei dovuto. Do sempre troppa fiducia. Però so imparare dalle fregature e dai tradimenti».
Quando l’hanno tradita?
«Mi sono sentita tradita tante volte. Ma ci ho fatto pace. La verità è che tendo a dare il mio aiuto anche quando non viene richiesto, fin da bambina, in famiglia. E questo non va bene. Perché se non te lo chiedono, l’aiuto, vuol dire che o non lo vogliono o non sono pronti a riceverlo. E a sbagliare sei sempre tu».
Quando l’ha imparato?
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«Ma non l’ho ancora imparato! Fingo di essere cresciuta ma poi ci casco sempre. Forse lo faccio per sentirmi importante. Ormai ho imparato a conoscermi: sentirmi importante mi rende felice».
Ripete spesso di essersi conosciuta bene. Si è fatta aiutare?
«Sì, dalla psicoterapia. Ma “La scuola della vita”, dei personaggi che incontri, è la lezione più importante. Ogni relazione comporta una reazione e tutti, nel bene o nel male, ti insegnano qualcosa».
Dà sempre l’impressione di essere molto forte.
«La forza mi garantisce la possibilità, il lusso di essere fragile nei momenti giusti. La vita mi ha insegnato che posso aiutarmi da sola, che sono la mia migliore alleata».
Non le è mai successo di non farcela da sola?
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«Ma certo. E le posso dire? Anche trovarmi da sola, impotente, è stato bello. O almeno utile. Nel 2017, dopo il primo Sanremo, ho staccato con tutti. Non mi sentivo più a posto, mi sembrava di mentire a me stessa».
Lei dice: «Tra esaltarmi e sminuirmi, scelgo sempre di sminuirmi». Perché?
«Perché sono onesta. E perché certe cose non riesco ancora a farle, a impararle».
Quali cose?
«Leggere 65 libri. Studiare quello che non ho potuto studiare. Vorrei gestire il mio tempo libero per recuperare il tempo perduto. Ma sono pigra e rinuncio».
Forse, più semplicemente, non è un robot.
«Ma nemmeno gli altri lo sono. Però queste cose le fanno o le hanno fatte. Vede, sono molto esigente con me stessa».
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Lo è anche con gli altri?
«Sì. Ma solo sul lavoro. Perché detesto chiedere. Chiedere è svilente».
Come svilente?
«Non mi piace chiedere. Mi piace l’idea che gli altri capiscano chi sono e di cosa ho bisogno. Come cerco di fare io».
Chi l’ha vista davvero? Chi ha capito di cosa aveva bisogno?
«Tante donne. Anche quelle che ho semplicemente ammirato: Mina, Raffaella Carrà, Anna Oxa, Elisa. È come se guardandole, ammirandole, mi avessero in qualche modo vista. Sono artiste potenti, sono talenti internazionali, non solo italiani».
Che cosa vuol dire essere internazionali?
«Vuol dire riuscire a parlare a tutti. Avere un filo che ti collega a ogni essere umano. È come se fossi più vero, più forte persino di quello che stai dicendo».
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Lei è internazionale?
«Non ci penso. Diciamo che cerco di avere il coraggio di andare fino in fondo in quello che faccio. Voglio essere sempre orgogliosa di me. Diventare internazionali è una lunga strada e io ne ho ancora molta da fare».
Che cosa significa, invece, essere italiana?
«Significa essere verace. C’è qualcosa che resta impresso in noi, nella nostra storia, nel nostro Dna. Penso che dobbiamo imparare a essere più italiani per diventare più internazionali. Solo così saremmo meno frustrati. Sai che noia guardare gli altri, quelli che hanno più soldi, più mezzi, più risorse. Meglio concentrarti su quello che hai e su quello che sei. Le donne pazzesche come Mina e Raffaella Carrà ti insegnano proprio questo»
Ha imparato molto dalle donne nella sua vita?
«Sì. Però ho anche capito che le donne devono ancora molto, molto imparare da se stesse. Per esempio a stare davvero insieme, ad accettarsi. Vede, con gli uomini siamo sempre così materne, così accoglienti. Ma tra di noi, diciamolo, a volte siamo proprio stronze».
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Stronze?
«Sì, stronze. Siamo troppo critiche. Vediamo le altre o come nemici o come specchi. Per questo ci stiamo antipatiche. Invece dovremmo essere orgogliose delle nostre fragilità. Stiamo vivendo un magnifico e insieme complicato momento di rivoluzione per noi. Un momento che forse farà finalmente a pezzi la nostra maledetta ansia da prestazione: essere una madre o essere una lavoratrice; essere una madre e una lavoratrice; essere tutto o essere niente. Invece dobbiamo imparare a essere solo quello che vogliamo essere: madri, lavoratrici, prostitute, quello che preferiamo. Esattamente come fanno gli uomini».
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Quali donne le hanno insegnato a essere come gli uomini?
«Una su tutte: Maria De Filippi. È granitica, complessa, curiosa. Ama gli esseri umani e li studia come fosse una scienziata, una sociologa. Lascia loro lo spazio per potersi esprimere, ma poi li attrae a sé come una calamita misteriosa. Le persone non devono provare a sedurla, devono sorprenderla. Da lei ho imparato la libertà di essere me stessa. Se ti concedi quella libertà, nessuno si arrogherà mai il diritto di dirti dove devi stare. Io detesto quando mi dicono dove devo stare»
Altre donne?
«Elisa. Sono artisticamente innamorata di lei. Canta, scrive, suona, ha inciso un disco in inglese, è brava in tivù, si reinventa sempre. Ma dove la trovi una così? Mi sta aiutando con il mio nuovo album e, ogni tanto, mi bacchetta. Una volta, quando si intestardiva su un suono che non riuscivo a riprodurre, mi sono buttata a terra e ho fatto i capricci. “Elisa, nun lo so fa”, le ho detto».
MARRACASH LIMONA DURO ELODIE
E lei?
«Lei si è messa a ridere».
Uomini importanti nella sua vita?
«Tanti. Soprattutto quelli con cui condividi i progetti che avevi solo paura a immaginare. Quelli che ti sanno guardare davvero».
Nomi.
«Max Brigante, il mio manager. Quando l’ho incontrato è cambiato tutto. Se gli altri mi vedevano come una pazza, se io mi vedevo come una pazza, lui diceva: va tutto bene, sei giusta così. Mi ha dato sicurezza. Come lui anche Jacopo Pesce. E poi Alessandro, Mahmood, che nella vita sembra distratto, invece ti vede, eccome se mi ha vista. Sono persone che mi danno la possibilità di somigliare ai miei sogni. Una cosa pazzesca».
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Lei spesso si scaglia contro i politici. Non ha paura delle reazioni?
«Delle reazioni non me ne frega niente».
Non le fanno paura le offese degli haters?
«Di cosa devo avere paura? Se mi dicono: “Mignotta stai zitta”? Ma quella non è un’offesa!».
E che cos’è, allora?
«È il niente. È frustrazione».
Ogni gesto di un artista è un gesto politico?
«Sociale direi, più che politico. Il termine “politico” mi fa paura: temo le strumentalizzazioni. Però sì, indignarsi è necessario. Sempre».
Che cosa la fa indignare?
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«La chiusura mentale. E lo sfruttamento della chiusura mentale. Il giocare sulla paura della diversità. E sa cosa? Mi fa imbestialire che, alla fine di tutto questo bel carrozzone, a pagare sono sempre le donne. Mi rode proprio questa cosa. C’è questa piramide: in cima, i maschi bianchi eterosessuali, poi tutti gli altri e in fondo, solo in fondo, ci sono le donne. Sarò scema, ma io proprio non lo capisco. Che cosa abbiamo in meno?».
elodie in topless in barca con mahmood
Che cosa si deve fare?
«Dobbiamo tirare fuori il coraggio. Dire quello che pensiamo. Ed essere sempre chi diavolo scegliamo di essere. Se qualcosa ti fa soffrire, parlane. Non ci sono alibi: parlane».
Lei chi chiama quando le cose vanno storte?
«Vediamo. Max, Attilio, Joan, Diletta, mio padre, mia sorella. Guardi, io chiamo tutti. Perché ognuno mi dà un punto di vista diverso».
Chi ci azzecca?
«Mio padre. Mi dà sempre belle chiavi di lettura».
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Dice spesso che fugge per dimenticare.
«È vero, ma cerco di non farlo più. Perché se dimentichi è come se lasciassi dei buchi, come viaggiare senza una valigia».
Senza una valigia?
«Ma sì, la vita è come una valigia in cui metti dentro la tua storia».
Com’è la valigia di Elodie?
«Piena. Mi sa che me ne devo comprare un’altra. Perché ho imparato a tornare indietro, alla ricerca delle cose che mi ero persa. Ogni tanto la apro, la mia valigia. E ci vedo tutti i vestiti della mia vita. Ce ne sono alcuni che mi sembrano bruttissimi, e poi penso: ma come ho fatto a mettermeli? Perché li ho scelti? Poi mi vengono in mente gli odori, i momenti, gli sbagli. E accetto tutto. Tutto».
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Che cosa la fa piangere?
«Ho sempre pianto poco, ma ultimamente piango tantissimo. L’ultima volta ieri, in macchina, mentre ascoltavo Blu celeste di Blanco. Piangevo perché quel brano è onesto, coraggioso. È difficile essere così».
Che cosa, invece, la fa ridere?
«Tutto. Soprattutto me stessa. Ogni tanto dico delle cose così cafone che poi scoppio a ridere. L’altra sera al ristorante, un ristorante molto chic, ho lasciato il dolce a metà. Il cameriere mi chiede: “Non le è piaciuto?”. E io: “Ma no, anzi! Solo che sono un po’ Boccadé”. Che detto così sembra francese, invece in romanesco vuol dire bocca de fregna, sai per quelle che dicono sempre “Mmm”. Ti piace? Mmm... Che ne pensi? Mmm... Come stai? Mmm... Ovviamente l’ho capito solo io e sono scoppiata a ridere».
Vorrebbe avere figli?
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«Oggi no. Perché non accetterei di essere deludente».
Che cosa intende?
«Che ho paura. Non so se ho gli strumenti per dare loro abbastanza. Essere genitori è la cosa più difficile».
Pensa che quello che le è successo come figlia abbia influito?
«Forse sì. Anzi, di sicuro sì».
Come va la relazione con Marracash?
«È stimolante e faticosa. Questo mestiere crea degli alti e bassi. Siamo molto diversi. Io più leggera. Lui è come se scrivesse con il sangue. Mi piace questa diversità. Le storie d’amore vanno tutte inventate, non ci sono schemi».
La musica italiana sta vivendo un momento magico.
«Sì, e ne sono fiera. C’è un desiderio di esserci, non di fare».
Nelle classifiche ci sono molti cantanti giovani e pochi dei grandi di ieri.
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«È generazionale. E ciclico. Però i grandi di ieri hanno vissuto un’altra epoca, un’epoca di sogno. Oggi c’è troppo di tutto. Ci siamo mangiati tutto e non abbiamo nemmeno più fame. Siamo ingordi, questo è il problema. Oggi ci sono due pubblici: quello distratto e ingordo e quello più attento e fedele».
Lei a chi si rivolge?
«A tutti. Io sono del popolo. Io sono nazional-popolare».
Com’è il disco a cui sta lavorando?
«Nuovo, diverso, speciale».
Cosa pensa della rivoluzione del linguaggio, spesso scambiata per deriva del politically correct?
«Penso che sia fondamentale, ma che dobbiamo avere pazienza. Al momento è come se dovessimo rinunciare un po’ all’autocritica, all’ironia. Le faccio un esempio: quando sono con i miei amici, ci diciamo le peggio cose e ci ridiamo sopra. Quell’ambiente, la nostra intimità di amici, però, non sono la società, ma un luogo protetto, sicuro. Ecco, noi stiamo costruendo una società più sicura, ma non ci siamo ancora riusciti. Penso che quando ci riusciremo, forse non ci serviranno più certi termini».
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Un giudizio sui comici Pio e Amedeo?
«Ritengo che siano stati poco intelligenti. Non hanno capito che prima vanno poste le basi di una società di fiducia. Altrimenti ti metti a ridere sopra le sue macerie e fornisci una scusa ai soliti quattro cretini per offendere ancora e ancora e ancora».
Lei ha posato per una copertina che verrà venduta in NFT. Che ne pensa della rivoluzione tecnologica?
«Mi piace quello che sta accadendo e mi interessa come la tecnologia migliori molte cose, come spalanchi orizzonti dove prima c’erano muri. Però i social iniziano a non piacermi più. Li uso per lavorare ma non per passarci la vita. A volte mi sembra di essere in The Truman Show. È una deriva che genera una cultura dei filtri. Il filtro di quello che piace agli altri. Ma la vita non è solo intrattenimento. Io mi chiedo: non è meglio viverla la vita, invece di passare il tempo sui social a guardare quella degli altri?».
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Com’è cantare sul palcoscenico dal vivo?
«Come fare l’amore. A Sanremo è stato caldo, bello, come, appunto, fare l’amore. Ma alla fine non ho acceso una sigaretta. Mi sono messa a piangere perché ero libera e felice».
Come si vede tra dieci anni, diciamo nel 2031?
«Oddio. Spero di essere una vera figa. Una figa di testa. Altrimenti m’incazzo. A 40 anni sei al massimo delle tue potenzialità, hai esperienza e consapevolezza. Mi immagino centrata. Ma spero anche di mollare un po’. Non è che posso passare tutta la vita sulla difensiva. Magari, nel 2031, imparerò a dirmi: Elodie, ma stai calma!».
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