Lidia Catalano per “la Stampa”
ACQUA VIRTUALE - IL COSTO DELLE COSTE
Quando indossiamo una t-shirt, stiamo indossando anche 2700 litri di acqua. Quando beviamo un bicchiere di vino, beviamo anche 120 litri di acqua. Quando mangiamo un hamburger, insieme alla carne consumiamo anche 2400 litri di acqua. Non la vediamo, ma c'è. È «l' acqua virtuale», che indossiamo e ingeriamo in quantità enormi tutti i giorni senza accorgercene, perché non scorre dai rubinetti e non finisce sulle nostre tavole dentro una bottiglia.
Ma è fondamentale per la produzione, trasformazione e distribuzione di cibi, beni e servizi che consumiamo abitualmente. Il concetto di «acqua virtuale» è stato introdotto nel 1993 da Tony Allan, professore del King' s College di Londra, per attirare l' attenzione della comunità globale - dagli esperti ai consumatori che si aggirano tra gli scaffali del supermercato - sul tema della dipendenza idrica dei prodotti, ovvero la quantità di acqua necessaria per la raccolta delle materie prime, la conservazione, gli imballaggi e il trasporto.
ACQUA VIRTUALE - IL COSTO DELLE COSTE
Marta Antonelli, ricercatrice ed ex allieva di Allan, insieme a Francesca Greco ha scritto «L' acqua che mangiamo», pubblicato da Edizioni Ambiente. «La maggior parte di noi ignora che immensi volumi d' acqua sono coinvolti nelle nostre attività quotidiane, anche se non lo percepiamo. Se ne beviamo in media circa due litri, dobbiamo tenere presente che se ne aggiungono altri 3496, nascosti in gran parte nel cibo che consumiamo».
È l' impronta idrica che ciascun prodotto nasconde in sé, e che raggiunge livelli esorbitanti negli alimenti di origine animale. Un chilo di carne rossa, ad esempio, implica un consumo di 15.500 litri di acqua. «Il dato non deve stupire. È evidente che un bovino ha una storia molto più lunga di una mela (che contiene 70 litri di acqua virtuale) e che dunque la sua impronta idrica sia infinitamente superiore».
ACQUA VIRTUALE - IL COSTO DELLE COSTE
Questo non significa però che non si possa ridurne l'impatto, prediligendo ad esempio il pascolo all' allevamento intensivo. «Le scelte dell' uomo - spiega Marta Antonelli - possono incidere enormemente sull' impronta idrica: se nutriamo gli animali all' aperto con erbe che crescono grazie all' acqua piovana non stiamo sfruttando risorse limitate ma utilizziamo quelle che ci arrivano in "dono". Ben diverso è il caso degli allevamenti industriali che utilizzano mangimi e sfruttano per l'irrigazione l' acqua di fiumi e laghi, che è una fonte limitata».
L'Italia ha un' impronta idrica del consumo pro capite annuo pari a 2330 metri cubi, contro una media mondiale di 1240 metri cubi ed è il terzo importatore netto di acqua virtuale sul Pianeta dopo Giappone e Messico. «Questo conferma che la nostra dieta comprende molti prodotti di origine animale, particolarmente intensivi dal punto di vista dell' impronta idrica». Non solo.
ACQUA VIRTUALE - IL COSTO DELLE COSTE
A incidere sul nostro primato è anche la tendenza sempre più diffusa a pretendere i prodotti che desideriamo in qualunque momento dell' anno, in barba ai cicli naturali e alla stagionalità. «Un classico esempio è quello delle fragole a gennaio. Nessuno si rende davvero conto dell' intervento industriale necessario a forzare una coltura fuori stagione, con il conseguente dispendio di risorse idriche».
Bisognerebbe dunque bere più acqua e mangiarne di meno? «La chiave, ripeto, è la consapevolezza. Tante persone raccontano di chiudere il rubinetto quando lavano i denti o di pulire le stoviglie in bacinelle di acqua insaponata per evitare di lasciar scorrere troppa acqua. Ignorano però l' impronta idrica della bistecca che hanno nel piatto o del cesto di fragole a gennaio. È importante che la sensibilità verso gli sprechi si estenda anche all' acqua virtuale, che a discapito del nome ha un impatto decisamente reale. Poi ognuno potrà scegliere liberamente quanta acqua bere e quanta mangiarne».