Alberto Simoni per “La Stampa”
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Ventidue dollari all'ora per girare un hamburger sulla piastra, servire un Frappuccino a Starbucks o infarcire di guacamole un burrito con carne di pollo a Chipotle. La rivoluzione del lavoro passa, come spesso accade per molti cambiamenti sociali in America, dalla California, lontano dai riflettori delle beghe politiche di Washington, ma dove associazione dei lavoratori, deputati e lobby dei proprietari delle catene di fast food per anni si sono dati battaglia. E promettono di continuare visto che il milione di dollari in operazioni di lobby finora non ha fruttato grandi successi.
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Il governatore democratico Gavin Newsom, stella nascente del firmamento democratico, moderato con venature progressiste sui diritti, un obbligo nel Golden State, ha scelto il Labor Day - lunedì, una delle feste comandate più rispettate ed evocative d'America - per apporre il suo sigillo a una legge che cambia radicalmente le dinamiche del lavoro nelle catene dei fast food dello Stato.
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In settimana l'Assemblea legislativa aveva approvato il Fast Act, una legge che istituisce un Consiglio composto da dieci persone fra rappresentanti dei lavoratori, dei proprietari e da due delegati statali, per migliorare le condizioni di lavoro, la tutela della sicurezza e i salari di mezzo milione di addetti all'industria dei fast food.
La rivista Forbes l'ha definito un balzo sul modello europeo di cogestione. E Kate Andrias, professore di diritto del Lavoro alla Columbia University, ha etichettato la legge come «uno dei passaggi più importanti nella storia della California». Di fatto dà ai rappresentanti dei lavoratori un posto nella sala di comando.
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Il Consiglio (Fast Food Council) avrà la possibilità di portare a partire dal 2023 la paga oraria base a 22 dollari l'ora, 7 dollari in più del minimo salariale in vigore (in gennaio sarà portato a 15,50 dollari), e una cifra record a livello nazionale. Dal 2024 i salari verranno regolarmente ridiscussi per aggiustarli al costo della vita. Dal testo approvato invece sono stati stralciati i capitoli sui benefit e quello sulle assenze per malattie.
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Il Fast Food Council è il punto di approdo di un lungo braccio di ferro iniziato già nel 2012 dal movimento «Fight for $15» quando la battaglia era l'innalzamento a 15 dollari del minimo salariale. I sindacati hanno appoggiato sin dall'inizio il movimento dei lavoratori dei fast food osteggiato invece dalle grandi corporations, le più toccate e coinvolte dalla riforma. Mary Kay Henry, presidente del Service Employees International Union, quasi due milioni di iscritti, ha detto che quanto ottenuto supera le difficoltà che i lavoratori avevano affrontato nel tentativo di portare la rappresentanza e tutela sindacale in ogni singolo ristorante.
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Basta vedere la reazione di Starbucks che ha chiuso negli ultimi mesi i bar in tutto il Paese in odore di aprirsi alle union. Tutte le catene di ristoranti con più di cento ristoranti e bar a livello nazionale saranno soggette alle nuove norme californiane che invece non coinvolgono i piccoli ristoratori che a questo punto sono però chiamati a fare ulteriori sforzi per garantirsi manodopera di valore e standard di sicurezza all'altezza.
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La legge ha trovato molte resistenze, e non solo dal mondo industriale. La Camera di Commercio statunitense due settimane fa ha inviato una lettera al Senato della California invitandolo a respingere il provvedimento. La tesi di Washington è che la legge avrà una ripercussione sui prezzi e alla fine i costi dei salari ricadranno sui consumatori.
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L'alleanza delle grandi catene che si sono opposte alla mossa di Newsom - Chipotle, Yum Brande, Chick-il-A, In-N-Out Burgers, Burger King - ha stimato in un 20% gli aumenti che ricadranno sugli avventori di hamburger e pollo fritto. Un cheeseburger da McDonald's dagli attuali 3 dollari arriverà a costarne oltre 3,50 e quei 0,50 serviranno - la lettura che hanno dato i rappresentanti delle compagnie - a pagare il salario minimo.
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