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    PERCHÉ SIAMO INVIDIOSI? - CON I SOCIAL MEDIA SIAMO SOMMERSI DA FOTO, VIDEO E POST CHE CI FANNO "ROSICARE", TRA CHI È IN VACANZA PERENNE, CHI OSTENTA I PROPRI LUSSI E CHI INVECE FA VEDERE IL PROPRIO FISICO SCOLPITO - LA FILOSOFA SARA PROTASI ANALIZZA IL FENOMENO E NE TROVA ANCHE UN LATO POSITIVO: "IL DOLORE PROVOCATO DALL'INVIDIA È UN UTILE ALLARME CHE CI SEGNALA UN CAMBIAMENTO A CUI PRESTARE ATTENZIONE QUESTO DOLORE CI PORTA A EVITARE DISTRAZIONI, A FOCALIZZARCI SULLO SVANTAGGIO E CI PUNGOLA A CERCARE DI RIDURRE IL DIVARIO" - CI SAREBBERO QUATTRO TIPI DI INVIDIA, OVVERO…


     
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    Giuliano Aluffi per “il Venerdì di Repubblica”

     

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    Se nella vita reale possiamo ancora gloriarci, con amici e colleghi, del magnifico weekend trascorso in montagna, non appena ci connettiamo a Instagram siamo inondati da foto di vacanze in luoghi più esotici, con panorami più spettacolari, e di soggetti che sembrano tutti più in forma, più agiati e più felici di noi.

     

    Ecco che scatta (ma non in tutti, per fortuna) quell'emozione dolorosissima che si chiama invidia. «I social media sono la macchina perfetta per generare questo sentimento, e il fenomeno si è acuito particolarmente nell'era pandemica, in cui abbiamo vissuto più online che offline.Per di più subendo limitazioni personali, come i lockdown, da cui gli altri, perlomeno nel mondo edulcorato delle loro pagine Facebook, apparivano esenti».

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    A parlare è Sara Protasi, che dopo una laurea alla Sapienza di Roma e un dottorato a Yale, oggi è docente di filosofia alla Puget Sound University di Tacoma (Usa), dove ha fatto dell'invidia un campo di indagine approfondita.

     

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    Ha pubblicato da poco uno studio sul Journal of hate studies sul ruolo dell'invidia nelle relazioni online al tempo del Coronavirus e quindi il libro The philosophy of envy (Cambridge University Press, pp. 260, euro 74), dove fornisce una nuova definizione dell'invidia trovandone anche il lato positivo. Le abbiamo chiesto subito perché i social ne sono il regno indiscusso.

     

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    ESPOSIZIONE IN VETRINA

    «Per prima cosa lì tutti si sforzano di mettere in vetrina soltanto il loro meglio. Fallimenti e momenti no restano invisibili: esistono solo i successi. Paragonare la propria vita a quegli esempi inarrivabili può scatenare il senso di inferiorità, e quindi l'invidia» spiega Protasi. Conta anche il fatto che i nostri contatti sono per lo più persone con interessi, professioni, livello d'istruzione e valori grossomodo vicini o comparabili ai nostri.

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    «E l'invidia è spesso una reazione di avversione a un'inferiorità che percepiamo rispetto a chi gioca, per così dire, nel nostro stesso campionato». Anche perché con chi fa parte della nostra cerchia è più probabile che si competa per le stesse risorse. Il villaggio globale di Internet, inoltre, non lascia scampo: ha messo in evidenza criteri oggettivi e misurabili su cui confrontarsi, come il numero di amici o follower, o il numero di like e retweet collezionati con i nostri post.

     

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    Il che accentua gli effetti negativi del senso di sconfitta: «Siccome sentirsi invidiosi è doloroso perché comporta l'ammissione di un'inferiorità, il risultato è un aumento di ansia e depressione» spiega Protasi. «Scatta un circolo vizioso: chi è insicuro presta più attenzione ai post di amici che sembrano passarsela meglio, e ciò accresce il malessere».

     

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    Ma attenzione, di invidia non ce n'è una sola: secondo Protasi ce ne sono ben quattro, che si distinguono in base al loro bersaglio (invidiamo qualcuno per qualcosa che ha o per come è?) e alla possibilità di successo nel rimettersi in pari.

     

    La prima è la cosiddetta "invidia dispettosa": «Quando notiamo qualcuno per una sua capacità e sentiamo che il divario è incolmabile - ad esempio una ballerina di fila che detesta un'etoile per la sua superiore agilità - allora prevale il sentimento che porta a desiderare la rovina dell'invidiato. La ballerina può sperare che l'etoile si rompa una gamba» spiega Protasi.

     

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    La seconda è l'"invidia aggressiva": «Quando ci accorgiamo che qualcuno ha qualcosa in più di noi ma che in effetti potrebbe essere alla nostra portata, può nascere il desiderio di sottrarre all'altra persona il bene concupito. Ad esempio si potrebbe voler "rubare" l'attraente partner di un'amica». Ancora più subdola e disperata è la cosiddetta "invidia inerte": «La prova chi, sentendo che il divario con l'altro è incolmabile, ne trae una sofferenza passiva e il desiderio di rifuggire quel pensiero tormentoso. Un esempio? C'è chi non riesce a gioire davvero dei successi scolastici o in altri ambiti dei figli degli amici o amiche perché, pur volendoli fortemente, non ha avuto figli».

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    Finalmente il quarto tipo, il meno esecrabile. «È l'"invidia emulativa". La proviamo quando sentiamo di poter raggiungere la condizione dell'invidiato - che non odiamo ma anzi prendiamo a modello - se solo ci sforzassimo di più. Anzi, potremmo trasformare gli altri tipi in questo, ben più edificante e produttivo, adottando una mentalità rivolta alla crescita, convincendoci che i nostri talenti non siano fissi e immutabili» spiega Protasi.

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    UN VANTAGGIO EVOLUTIVO

    Più o meno dannoso che sia, ogni tipo di invidia è comunque inconfessabile: esplicitarlo significa inimicarsi gli altri. «C'è uno stigma antico e universale» dice Protasi «Da sempre infatti le culture umane ammoniscono dall'ostentare le proprie fortune per evitare, ad esempio, il "malocchio", ovvero lo sguardo malevolo dell'invidioso».

     

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    Ma se l'invidia - l'emozione più negativa di tutte, perché addolora sia chi la prova che chi ne è oggetto - è una forza così distruttrice per i rapporti umani, come mai non è stata cancellata dall'evoluzione? Secondo lo psicologo evoluzionista David Buss, dell'Università del Texas a Austin, ha avuto un ruolo importante, per tutta la storia dell'Homo sapiens, nel favorire l'acquisizione di risorse necessarie per la sopravvivenza e la riproduzione.

     

    La natura umana è stata molto competitiva: fino alla relativamente recente (10-12 mila anni fa) invenzione dell'agricoltura le risorse per cui competere erano scarse e il vantaggio di uno si traduceva nello svantaggio di qualcun altro: è quindi probabile che la nostra mente contenga ancora oggi quell'istinto di confrontarci che ha permesso ai nostri antenati di capire il loro status rispetto agli altri membri del loro gruppo.

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    Ogni informazione è preziosa: se un membro della tribù capisce di essere il più bravo a seguire le tracce degli animali, può specializzarsi in quello e lasciare che a scoccare le frecce sia un altro più dotato di mira. Se poi competiamo per risorse limitate, la strategia ottimale deve tenere conto sia delle nostre capacità che di quelle altrui.

     

    La regola "Fai meglio del tuo rivale più prossimo" permette di dosare le energie evitando gli sprechi: quando ci si accorge di aver superato il rivale, ad esempio nella capacità di cacciare, si possono riservare le restanti energie ad altre sfide, come trovare un partner per riprodursi. Se invece la regola è assoluta - "Fai sempre del tuo meglio" - non è chiaro a che punto si può interrompere uno sforzo per dedicarsi ad altri obiettivi.

     

    SPRONATI A DARE DI PIÙ

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    «In quest' ottica evoluzionistica, il dolore provocato dall'invidia è un utile allarme che ci segnala un cambiamento a cui prestare attenzione: qualcuno ci ha superato in una dimensione importante per la sopravvivenza» sottolinea Protasi. «Questo dolore ci porta a evitare distrazioni, a focalizzarci sullo svantaggio che abbiamo percepito e sulla persona dell'invidiato, così da investigare su come questi sia riuscito ad avvantaggiarsi. E ci pungola a cercare di ridurre il divario».

     

    L'ipotesi di Buss spiega anche perché questa emozione sia così inconfessabile. Celarla ha un valore strategico: la nostra reale capacità personale di acquisire risorse è un'informazione che di norma non è facilmente acquisibile dagli altri, ed è proprio l'ambiguità su questo dato che permette a ognuno di manipolare le impressioni degli altri in una maniera vantaggiosa.

     

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    Ammettere l'invidia rovinerebbe questo gioco, perché segnalerebbe a tutti che siamo inferiori su qualcosa che ci sta a cuore, svelerebbe la nostra vulnerabilità e comprometterebbe l'esito delle azioni successive. Se chi viene superato da Tizio in un concorso fa spallucce e non rivela il suo malanimo, potrà poi far passare un messaggio - tipo: "Che coincidenza! Sapete che Tizio è il nipote del commissario d'esame?" - senza che gli altri lo squalifichino automaticamente come l'illazione di un invidioso.

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