Gianna Milano per "La Stampa"
TRASPORTO DI UN PAZIENTE CON IL CORONAVIRUS
Come mai a parità di età e di fattori di rischio, qualunque sia la concomitanza di altre patologie, ci sono persone più suscettibili di ammalarsi di Covid-19? E come mai c'è chi va incontro a un decorso clinico più grave e a sintomi più severi? Infine come si spiega la diversa evoluzione dell'infezione in contesti socio-sanitari analoghi e la maggiore mortalità degli uomini rispetto alle donne?
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E' da pochi mesi che il Sars-Cov-2 ha fatto la sua comparsa e molto resta ancora da scoprire di questo agente patogeno. L'idea che si fa strada è che a rendere più vulnerabili e a influire sull'esito della malattia possa contribuire una predisposizione genetica. Diversi studi internazionali sono stati avviati per capire qual è il legame tra specifiche varianti genetiche e l'esito dell'infezione. Ipotesi che trova conferma nei risultati di uno studio europeo guidato dall'Università di Kiel, in Germania, e di Oslo, in Norvegia, a cui hanno preso parte sette ospedali italiani e spagnoli.
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«In tempo record, poche settimane, sono stati analizzati i campioni di 1980 pazienti Covid-19 alla ricerca di indizi, ossia delle varianti genetiche responsabili dello sviluppo dell'insufficienza respiratoria, complicanza che riguarda il 10% dei malati», spiega Stefano Duga del dipartimento di Scienze Biomediche dell'Humanitas University di Milano: con l'Università Milano Bicocca-Ospedale San Gerardo di Monza e Policlinico di Milano ha preso parte allo studio uscito in forma pre-print su MedRxiv e in pubblicazione sul «New England Journal of Medicine».
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Due i fattori rischio individuati dallo studio europeo per le forme gravi di Covid-19: appartenere al gruppo sanguigno A (quello 0 sarebbe invece protettivo) e avere una variazione genetica sul cromosoma 3. «Le differenze nel gruppo sanguigno influiscono sulla coagulazione e anche sulla risposta immunitaria, mentre nella regione individuata sul cromosoma 3 è presente un gene che interagisce con l'enzima Ace2 che il virus utilizza per l'ingresso nelle cellule e dare avvio alla replicazione.
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Nella stessa regione del cromosoma 3 ci sono anche alcuni geni per i recettori di chemochine, proteine coinvolte nella risposta infiammatoria che influisce sull'evoluzione dell'infezione», continua Duga. Sempre all'Humanitas è in corso una ricerca che ha lo scopo di confrontare i dati genetici raccolti nella popolazione generale con quelli di chi si è ammalato e verificare il livello di espressione di due geni specifici in maschi e femmine. Entrambi i geni possono essere responsabili delle diverse manifestazioni cliniche di Covid19 in uomini e donne.
coronavirus, la terapia intensiva di un ospedale di new york 1
Il primo è il gene per l'enzima Ace2, quello usato come recettore per entrare nelle cellule e che si trova sul cromosoma X, in duplice copia nelle femmine e in singola copia nei maschi; il secondo è il gene Tmprss2, enzima che modifica la proteina di superficie del virus (chiamata proteina S, da Spike), rendendola in grado di favorire la fusione fra la membrana esterna del virus e quella della cellula infettata. Il gene Tmprss2 è espresso sotto il controllo degli ormoni sessuali, in particolare androgeni. I risultati preliminari dello studio sono stati pubblicati sulla rivista «Aging». Che cosa hanno visto i ricercatori? «Che uomini e donne si infettano in percentuale uguale, ma cambia la prognosi: nei primi la letalità è doppia.
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Una spiegazione della diversa evoluzione della malattia può essere nel fatto che i maschi sono più soggetti a malattie cardiovascolari e fumano di più, ma non basta. Le differenze possono risiedere nel sistema immunitario o essere genetiche: chissà quanti altri geni possono influenzare la gravità della malattia. Ed è ciò che vogliamo scoprire», osserva Duga. Il progetto di ricerca fa parte del Consorzio «Genius» («GENetics agaInst coronavirUS»), nato dalla collaborazione fra Humanitas University, Policlinico di Milano e Università di Milano Bicocca.
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«Una sinergia utile a raccogliere una grande quantità di dati da tre degli ospedali che hanno assistito molti infettati, accelerando l'acquisizione di dati significativi sui fattori genetici che influiscono sull'evoluzione della malattia. Consentendoci da un lato di selezionare i pazienti a maggiore rischio di complicanze gravi e dall'altro di mettere in luce meccanismi molecolari che potranno essere bersaglio di terapie innovative». A Napoli scienziati del Centro di tecnologie avanzate Ceinge, avvalendosi di un enorme database di dati genomici, hanno analizzato le possibili varianti genetiche di 141.456 individui sani di 17 popolazioni (africani, europei, asiatici, latinos) e hanno concluso che la variante del gene Tmprss2, responsabile dell'ingresso del virus Sars-Cov-2 nelle nostre cellule, è più frequente nelle popolazioni di Africa, Europa e Paesi latini. Ma non è tutto.
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I ricercatori hanno anche osservato che questa variante genetica ha un ruolo funzionale nel polmone, perché in grado di alterare sia l'espressione di Tmprss2 sia di un altro gene, Mx1, noto come inibitore della replicazione di molti virus, da quello della banale influenza all'epatite C. « L'eterogeneità con cui si manifesta la malattia di Covid-19, da una totale assenza di sintomi (i positivi asintomatici) a sintomi influenzali leggeri, fino alle forme gravi di polmonite interstiziale, fa supporre che responsabili siano in parte alcune mutazioni genetiche del paziente», osserva Achille Jolascon, ordinario di genetica medica all'Università degli Studi Federico II e «principal investigator» del Ceinge. Al San Raffaele di Milano, sfruttando l'esperienza dell'Istituto SR-Telethon per la terapia genica (Tiget), e grazie alla biobanca coordinata da Fabio Ciceri, che ha analizzato un migliaio di pazienti Covid-19, è stato avviato un progetto per scoprire le varianti genetiche che rendono più resistenti all'infezione.
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Il progetto rientra nel «Covid Human Genetic Effort», un consorzio di cui fanno parte 30 Paesi e 50 gruppi di ricercatori, fra cui quello di Alessandro Aiuti, vicedirettore del Tiget e lo stesso Ciceri. E' recente l'annuncio che la società che si occupa di genomica 23&Me e propone (e vende) test genetici basati su campioni di saliva per scoprire i propri antenati ha deciso di attingere alla propria banca dati (10 milioni di clienti) per scoprire le varianti genetiche che sembrano essere più comuni tra chi si ammala di Covid-19.
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La compagnia, con sede a Mountain View, California, spera siano centinaia di migliaia i clienti che accettino di partecipare allo studio. In Islanda, intanto, Kari Stefansson, fondatore e ad di deCode Genetics, società farmaceutica che ha coinvolto nelle sue ricerche i due terzi della popolazione dell'isola, indaga sulle caratteristiche genetiche di chi si è ammalato di Covid-19. Secondo Stefansson, la variabilità con cui il virus colpisce contribuisce anche al suo diffondersi: chi si ammala in modo più lieve diffonde di più l'infezione.
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