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    “A QUEST’ORA NICOLA SI STARÀ MASTURBANDO PER LA GIOIA” – PIETRANGELI, CAPITANO DELLA SQUADRA CHE VINSE LA COPPA DAVIS NEL ’76 NEL CILE DI PINOCHET, RICORDA IL COMPLOTTO DI PANATTA PER FARLO FUORI DA CAPO DELL'ITALTENNIS  – “CON PANATTA NON CI SIAMO PARLATI PER 5 ANNI. POI MI CHIESE SCUSA” - “HO VINTO PIÙ IO DA SOLO CHE LORO 4 INSIEME. A ME MANCA SOLO WIMBLEDON” – E POI VIRNA LISI, LICIA COLO' E LE DONNE DELLA SUA VITA - IL DOCUFILM DI PROCACCI - VIDEO


     
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    Massimo Laganà per “Oggi”

     

    pietrangeli panatta pietrangeli panatta

    O Capitano! Mio capitano. Nicola Pietrangeli, 88 anni indimostrati, fu il prode condottiero che nel 1976 guidò per mano i nostri quattro moschettieri verso la conquista della Coppa  Davis: per la prima e unica volta, nella storia del tennis tricolore. Una docuserie ripercorre quel sofferto trionfo. Si intitola Una squadra. Narra l’impresa di Adriano Panatta, Corrado Barazzutti, Paolo Bertolucci e Tonino Zugarelli. Dopo un veloce passaggio nelle sale cinematografiche, il film sarà disponibile su Sky a partire dal 14 maggio.

     

    Pietrangeli fu il capitano non giocatore del team. Il mister, in termini calcistici. Grande tennista a suo tempo, con un grande cruccio, manco a dirlo: lamancata conquista della Coppa Davis. Lacuna che ha colmato da allenatore.

     

    Il felice epilogo del 1976 si concretizzò con uno schiacciante 4-1 a nostro favore, nella finale in Cile, dove le difficoltà furono più politiche che tecniche. Una consistente parte dell’opinione pubblica era contraria alla trasferta dei tennisti azzurri nel Paese sudamericano, retto all’epoca dal dittatore fascista Pinochet. Pietrangeli si oppose al boicottaggio e si batté per andare a Santiago. Piantonò la tv, litigò con dirigenti sportivi e uomini di partito. La spuntò.

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    Oggi, acciaccato per una caduta, ci riceve nella sua casa romana alla Balduina. Semisdraiato sul divano extralarge, in vestaglia, coccolato da un gatto e circondato dai trofei ottenuti in carriera.

     

    Non le domando se lo rifarebbe. Le chiedo un’opinione sulle attuali sanzioni per i tennisti russi, che non potranno giocare al prossimo torneo di Wimbledon.

    «Sono una colossale sciocchezza. E lo affermo a prescindere dalla circostanza che mia madre fosse una contessa russa. Sono sempre stato contrario alla commistione tra sport e politica. A maggior ragione in questo caso. Nei tornei il giocatore rappresenta se stesso, non la propria nazione. Che senso ha punirlo?».

     

    Sa che il suo amico Panatta ha espresso lo stesso pensiero con analoghe argomentazioni? A proposito, siete amici?

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    «Amico è una parola grossa. Nel 1978 la banda dei quattro organizzò un complotto per mandarmi via.

     Per la cronaca, l’anno precedente eravamo arrivati in finale. Eppure, dopo un primo e un secondo posto, la ricompensa fu un calcio nel sedere. Non ci parlammo per cinque anni».

     

    Qualcuno sostiene che lei fosse troppo ingombrante. Troppo Pietrangeli.

    «Ognuno ha il proprio carattere con relativo ego. Io ho fatto Pietrangeli per l’intera esistenza e non mi è andata poi così male. La verità è che erano quattro ottimi giocatori, divisi su tutto. L’ho spiegato al regista, Domenico Procacci. Il film lo doveva intitolare Le squadre. Panatta e Bertolucci stavano sempre per conto loro. Barazzutti e Zugarelli, idem. E non sto qui a raccontarle insulti e sfottò, che Adriano riversava a ruota libera alle spalle di Corrado».

     

    Lei era un collante?

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    «Il collante. Tant’è che, dopo il mio esonero, furono eliminati al primo turno, quando Adriano si fece battere da un cameriere ungherese. E vuol proprio sapere come commentò, a caldo, la disfatta? “A quest’ora Nicola si starà masturbando per la gioia”».

     

    Cosa provò per la vittoria in Cile?

    «Un’immensa emozione. Ci andai perfino a dormire, con la Coppa Davis. Tuttavia orgoglio e soddisfazione si mescolarono all’amarezza. C’è una foto emblematica. Noi in aeroporto, al ritorno da Santiago, con la mitica insalatiera (così è ribattezzato il trofeo, ndr). Da soli. Nessuna autorità ad accoglierci, nessun festeggiamento. Sembrava che il Paese si vergognasse del nostro successo».

     

    La residenza a Montecarlo è stato il suo modo di vendicarsi?

    «È un favore che mi chiese Ranieri di Monaco, per dare lustro al suo principato».

     

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    Messo con le spalle al muro, se oggi dovesse andare a cena con uno dei suoi quattro moschettieri, chi sceglierebbe?

    «Panatta, al volo. Fu lui a rompere il ghiaccio e a ricucire lo strappo. Nel 1983. Eravamo a Cortina, non ricordo più perché. Di certo avevamo bevuto il giusto. A un tratto cominciò a piangere sulla mia spalla e mi chiese scusa».

     

    Lei lo conosceva bene.

    «Ero amico di suo padre, Ascenzio, custode del mio circolo, il Tennis Club Parioli. Infatti io l’ho sempre chiamato “Ascenzietto”. La prima volta che giocammo contro non lo riconobbi. Il nome “Adriano” non mi diceva nulla. Lo battei a fatica. Poi lui a fine match mi disse con la solita faccia da impunito: “Tanti saluti da mio padre”. Allora compresi che era Panatta».

     

    Siete molto simili, fondamentalmente.

    «Aveva un temperamento da leader. In Cile, nel doppio decisivo, si mise la maglietta rossa, per recitare un po’ il ruolo dell’eroe di sinistra senza macchia. Convinse il compagno Bertolucci a fare altrettanto. Ovviamente non mi informò; sapeva che il mio cuore politico è sulla sponda opposta. Ma gli voglio bene lo stesso».

     

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    Chi è il più forte tennista tricolore di ogni tempo? Lei o Adriano?

    «Basta guardare il palmares. Ho vinto più io da solo che loro quattro insieme. Con il dovuto rispetto per Panatta, che è stato un grande giocatore. A me manca soltanto Wimbledon. È il vero dispiacere della carriera. Fino all’anno scorso ero l’unico italiano arrivato in semifinale sull’erba londinese. Sono contentissimo che Matteo Berrettini abbia battuto il mio record. Penso che riuscirà a conquistare il torneo».

     

    Wimbledon a parte, lei era una promessa della Lazio.

    «Ho presentato la Domenica Sportiva e ho pareggiato i conti con il calcio».

     

    Con il dovuto rispetto, com’è riuscito a girare un film assieme a Virna Lisi, La donna giusta, nel 1982?

    «Perché era una carissima amica. Comunque ho recitato anche con Peter Ustinov in C’era un castello con 40 cani, se è per questo. Sono stato un uomo versatile. Mi piacevano sfide e avventure».

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    Lei è divorziato, ha avuto una lunga storia con Licia Colò e adesso è single. Appurato che Wimbledon è il cruccio sportivo, nutre invece qualche rimpianto più esistenziale?

    «Soltanto gli stupidi non ne hanno. Con le donne ho chiuso. Alla mia età si diventa pigri, abitudinari. Egoisti. Con Licia siamo rimasti in buoni rapporti, sono andato al funerale della madre. Sinceramente, non ho mai capito perché mi abbia lasciato. Credo che per lei fosse importante avere un bambino. Buffo: io passo per un rubacuori. In realtà sono sempre state le donne a mollarmi e mai il contrario».

     

    È in buoni rapporti con i suoi tre figli?

    «Ottimi! Vanno d’accordo tra di loro e mi vogliono bene. La nuova arrivata in famiglia è una nipotina meravigliosa. Ha un anno e mezzo. L’hanno chiamata Nicola. È la bimba più bella che abbia mai visto. Del resto, porta il mio nome».

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