FABRIZIO PAPITTO per il Corriere della Sera - Roma
pino donaggio
A ripercorrere la vita di Pino Donaggio, 80 anni lo scorso novembre, sembra di perdersi tra le calli della sua Venezia. «Butite nel mar grando», gli ripeteva la madre: «Buttati nel mare grande». E lui l'ha fatto. Violinista al conservatorio, stella della musica leggera e infine artigiano della musica per immagini al servizio del cinema. Oltre 200 colonne sonore tra grande e piccolo schermo.
Fra gli ultimi lavori, Una sconosciuta di Fabrizio Guarducci e Spin me round del regista americano Jeff Baena. A tracciare le rotte della sua carriera è la biografia Come sinfonia scritta con Anton Giulio Mancino, docente di cinema all'Università di Macerata che sarà presentata oggi alla Casa del Cinema.
Quando avviene il suo primo contatto con la musica?
«Mio nonno cambiava i rulli dei pianoforti a puntine nelle osterie. I suoi tre figli erano tutti musicisti, mio padre suonava il violino e ci teneva che studiassi. Mi fece iscrivere al Conservatorio di Venezia, percorso che ho proseguito a Milano».
A 19 anni il primo Sanremo con «Come sinfonia».
«Avrebbe dovuto cantarla Mina se non avesse già fatto il provino per Io amo, tu ami e Le mille bolle blu . Fu lei a intercedere per me col direttore di quell'edizione Ezio Radaelli. Le mie emozioni però sono legate a quando mio padre mi raggiunse a Milano per incidere il disco. Fuori nevicava».
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Nel 1965 torna con «Io che non vivo (senza te)».
«La melodia è venuta spontanea quando ho messo le mani sul pianoforte. Non l'ho trascritta subito, volevo vedere se l'indomani me la sarei ricordata. Al Festival era presente anche Dusty Springfield che l'avrebbe trasformata nella hit You Don't Have To Say You Love Me , ripresa anche da Elvis. Lo seppi leggendo la classifica di Billboard».
Nel 1973 il film «Don't Look Now» di Nicolas Roeg segna il suo esordio in veste di compositore. Come inizia la sua seconda vita?
«Erano le 6 del mattino. Ugo Mariotti, coproduttore del film, si trovava sulla riva opposta della stazione mentre rientravo in laguna a bordo di un vaporetto. Quando mi vide pensò si trattasse di un'apparizione in sintonia col tema parapsicologico del film. Un segno del destino».
Che poi si legherà a quello di Brian De Palma.
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«De Palma cercava qualcuno che sostituisse Bernard Herrmann, scomparso mentre lavorava a Taxi Driver . Il suo amico Jay Cocks, critico del Time, gli fece ascoltare Don't Look Now ».
C'è una sua musica alla quale è legato?
«In una scena di Carrie si vede una mano che esce dalla tomba e in sottofondo si sente un mio canone. Quando George Lucas andò a vedere il film, durante quella sequenza saltò sulla sedia. Poi si girò verso di me sorridendo, come a dire: mi hai giocato un bello scherzo».
Si specializzò nell'horror con registi come Joe Dante, Dario Argento e Lucio Fulci. Ma nelle sue musiche c'è anche nostalgia. «
Forse deriva dall'aver perso mia madre quando lei aveva 58 anni. Il funerale di Don't Look Now l'ho scritto per lei che era appena mancata».
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Luca Pallanch per “La Verità”
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La doppia vita di Pino Donaggio: cantante di successo al Festival di Sanremo e autore di brani famosi in tutto il mondo negli anni Sessanta, compositore di colonne sonore di film hollywoodiani dagli anni Settanta. Un libro, dal titolo emblematico, Come sinfonia (Baldini+Castoldi), orchestrato insieme ad Anton Giulio Mancino, con tanto di ouverture e quattro movimenti, svela i segreti di un maestro della musica schivo e riservato.
Come ha iniziato?
«Mio padre aveva un'orchestrina. Mio nonno e i miei zii erano tutti musicisti, uno di loro era primo flauto alla Fenice. Ho fatto 12 anni di Conservatorio, a Venezia, ero uno dei più bravi a suonare il violino.
Dopo sono andato al Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano, dove mi ha sentito Claudio Abbado e anche se non ero diplomato mi ha voluto nella sua orchestra, I Solisti di Milano, con la quale abbiamo fatto tanti concerti all'estero. Ero nato per fare il violinista. Tutto quello che è venuto dopo è stato, come ho scritto nel libro, per fatalità».
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Come mai da violinista è finito al Festival di Sanremo, il tempio della musica leggera?
«A Milano, nelle ore libere, ho cominciato a scrivere delle canzoni. Tornato a Venezia, ho detto a mio padre: "Proviamo a eseguire le canzoni che ho scritto", per vedere l'effetto sul pubblico.
Grandi applausi, ma mio padre ha commentato: "Ti applaudono perché sei mio figlio". Per fargliela vedere, sono andato a Milano alla Curci a far sentire le canzoni, però era l'orario di chiusura, per cui mi hanno mandato via. Fatalità l'ascensore si è fermato al piano di sotto, dove c'erano le Messaggerie Musicali. "Bah, forse anche le Messaggerie vanno bene".
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Dentro c'era Bruno Pallesi, un cantante e paroliere dell'epoca: "Fammi sentire cosa canti". A metà canzone mi ha fermato e mi ha riportato su alla Curci, dove mi ha presentato come il nuovo Paul Anka! Mi hanno fatto il contratto. È stata una svolta: così ho cominciato a cantare».
Nel 1961 ha partecipato per la prima volta a Sanremo, con il brano che dà il titolo al libro, Come sinfonia.
«Doveva cantarla Mina, che ha fatto il provino, ma aveva giù due canzoni, Io amo tu ami e Le mille bolle blu, allora mi ha detto: "Se entrano queste canzoni, non posso cantare la tua". Quando sono state ammesse entrambe, lei ha parlato con Ezio Radaelli, il patron del festival: "Guarda che è un bravo autore, scrive bene".
george lucas
La canzone è piaciuta e mi sono ritrovato a Sanremo, dove ho ottenuto un grande successo. Come sinfonia ha cambiato la mia vita».
L'ha cantata in coppia?
«Sì, con Teddy Reno».
Con chi l'è piaciuto particolarmente duettare nelle sue numerose partecipazioni al festival?
«Credo che le migliori coppie le abbia fatte insieme a Cocky Mazzetti con Giovane giovane, Frankie Avalon con Motivo d'amore e Peppino Di Capri con L'ultimo romantico».
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È stato tante volte primo in classifica, ma non è mai riuscito a vincere Sanremo.
«Io puntavo più alla hit parade che a vincere il festival, anche perché le mie canzoni entravano un po' dopo nella testa della gente. A distanza di tempo posso dire: "Meno male che non ho vinto, così ho continuato a partecipare anche l'anno successivo" e così ne ho fatto dieci».
Com' è nata Io che non vivo (senza te), un successo planetario?
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«È nata perché una mattina mi hanno portato un pianoforte nuovo. Stavo con la mia fidanzata, che poi è diventata mia moglie, e come ho messo le mani sul piano mi è venuto questo tema, quindi è dedicata a lei.
Però non ho scritto la canzone: "Se me la ricordo anche domani, vuol dire che è molto valida". Infatti il giorno dopo me la ricordavo tutta. Allora sono andato a Milano a farla sentire e tutti hanno capito che era un bel pezzo, ma nessuno pensava che avrebbe avuto un successo così.
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Ci sono state anche in questo caso una serie di coincidenze: al Festival di Sanremo del 1965 Dusty Springfield, essendo stata eliminata la sera prima, era in platea quando l'ho cantata. Si è innamorata di questa canzone e l'ha messa nel suo repertorio.
Sono andata a trovarla a un concerto a New York e mi è saltata addosso: "Hai scritto la canzone della mia vita", e io: "Anche della mia!". L'ha incisa anche Elvis Presley».
L'ha conosciuto?
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«No, perché quando ha cantato al Madison Square Garden, Little Tony e Bobby Solo sono andati a sentirlo, ma non me l'hanno detto. "Se mi chiamavate, venivo con voi, magari conoscevamo Elvis"».
Loro lo hanno conosciuto?
«No, Elvis neanche li vedeva. Sai quanti imitatori aveva nel mondo? Se fossi andato io, magari l'autore di You don't have to say you love me l'avrebbe ricevuto!».
Quindi era già famoso in America?
«Sì, però non tutti sapevano che fossi io quello di You don't have to say you love me. Brian De Palma lo è venuto a sapere perché quando abbiamo fatto il primo film, Carrie (Lo sguardo di Satana), c'erano delle canzoni da inserire nella colonna sonora. "Queste le facciamo fare a qualche gruppo". "Però le scrivo io". "Tu scrivi canzoni?". "Sì, ho scritto You don't have to say you love me". "Come? È tua quella canzone?". È una cosa che non ho mai sbandierato nel cinema».
Com' è avvenuto il passaggio nel cinema? La sua prima colonna sonora è stata A Venezia un dicembre rosso shocking di Nicolas Roeg, nel 1973.
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«Io cantavo ancora e dopo una serata, siccome avevo guidato tutta la notte, ho preso un vaporetto alle sei del mattino per ritornare a casa. Ero nella parte scoperta per prendere un po' d'aria, dalla riva mi ha visto il produttore associato del film, Ugo Mariotti, il quale si è messo in testa, vedendomi passare, che fossi un'immagine mandata dall'aldilà, come mi ha rivelato successivamente. Per lo stesso motivo hanno scelto anche Massimo Serato, una mattina all'alba a piazza Navona».
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Un'altra fatalità!
«Mi ha presentato il regista, non parlavo inglese, quindi Mariotti traduceva: mi ha detto cosa voleva e io dopo una settimana ho registrato dei demo sul Nagra proprio al Conservatorio di Venezia. Roeg li ha sentiti e gli sono piaciuti molto, soprattutto il tema che ha inserito subito nel montaggio di una scena d'amore.
A Londra il produttore Peter Katz non mi voleva: "Non possiamo dare un film così importante a uno che non hai mai scritto per il cinema", però è arrivato il finanziatore americano - io per questo sono un po' legato agli americani -, che ha visto il film con la moglie e ha detto: "Il film è bellissimo e quella musica che c'è sotto cos' è?". "Mah, è di uno di Venezia che però non ha mai fatto film". "Se scrive così, che problemi abbiamo?". Così sono stato preso».
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Il suo nome come compositore è legato al cinema di Brian De Palma.
«Sempre per fatalità. Un tizio è passato per Londra, ha comprato il mio disco e quando De Palma cercava il musicista perché era morto Bernard Hermann, gli ha detto: "Vieni a mangiare da me. Ti faccio sentire un musicista".
L'ha sentito e gli è piaciuto, anche perché usavo gli archi come li usava Hermann e quindi ha trovato delle affinità. Mi ha chiamato e sono andato in America».
Com' è umanamente?
«Non è molto espansivo, è un po' orso, ma quando ha sentito una scena di Carrie molto lunga mi ha fatto gli applausi in sala: "L'avrò vista mille volte per montarla, per girarla, per prepararla... ma ora è la prima volta che la vedo! Mi ha dato un'emozione che non avevo provato".
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Lui al massimo ti dà una manata sulla spalla, non come Antonino Cannavacciuolo ma quasi, e ti dice: "Very good"».
È il regista con il quale ha creato il sodalizio più proficuo dal punto di vista artistico?
«Sì, quando si vuole divertire dice una battuta: "Ti ho tirato fuori dai canali di Venezia!" ed è vero in fondo perché devo a lui la popolarità in America. Ho fatto tanti altri film proprio perché i registi avevano sentito quello che avevo fatto con lui».
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Ha vissuto anche in America?
«A periodi, sei mesi, sette mesi, poi tornavo perché preferivo scrivere a Venezia, il luogo che mi dà l'ispirazione. Nel mio studio sul Canal Grande respiro arte».
Quando compone una colonna sonora, lavora sulla sceneggiatura o ha bisogno di vedere il film girato?
«Per scrivere la musica devo avere i punti dove va inserita la musica, che vengono decisi insieme al regista. Quindi il film deve essere finito perché ogni scena da coprire ha una durata diversa e bisogna essere precisi. Tagliare sulla musica già composta è più difficile».
Non le è mai capitato che un regista le abbia dato carta bianca, dicendo: «Componga la musica e poi la adattiamo alle immagini»?
«Sì, con Lucio Fulci per Black Cat. Mi ha detto: "So che sei bravo, fai tutto te, ciao" e non l'ho più visto!».
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Strano perché Fulci aveva un passato musicale, da autore di canzoni come 24.000 baci e Il tuo bacio è come un rock.
«Sì, l'ho conosciuto a Sanremo al mio debutto, ma non ci eravamo più incrociati. In una proiezione in Francia di due-tre film suoi, quando ha annunciato che preparava un nuovo film, gli hanno fatto il mio nome, dicendo che ero bravo e avevo lavorato con De Palma, e allora mi ha chiamato».
Fra i registi con cui ha lavorato chi ha orecchio musicale?
«A parte De Palma, Dario Argento e Sergio Rubini».
Come si è trovato con Argento?
«Bene. Abbiamo fatto Due occhi diabolici, Trauma, Do You Like Hitchcock?. Argento non vuole una colonna sonora uniforme dall'inizio alla fine, vuole sonorità diverse, passare dal jazz al rock».
Il libro come nasce? Da una fatalità anche questo?
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«Sì, perché Anton Giulio Mancino voleva conoscermi e, tramite un giornalista amico comune, è venuto a trovarmi nel mio studio, con alcuni dischi da farmi firmare. Dopo un po' di giorni mi ha telefonato: "Ti piacerebbe raccontare la tua storia?".
Quando nel 2015 ero andato al Festival di Sanremo, condotto da Carlo Conti, a prendere il premio per i 50 anni della canzone Io che non vivo, dopo di me è salita sul palco Virginia Raffaele che ha fatto una battuta: "Pino Donaggio che persino i parenti credevano fosse morto!". Ho detto: "Ca, qui nessuno sa quello che ho fatto dopo aver smesso di cantare, allora forse la biografia può illuminare qualcuno"».
virginia raffaele con abito bello
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