Eugenia Tognotti per “la Stampa”
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Astenersi dalle fave. Il rigido veto imposto nel V secolo a.C dal filosofo e matematico Pitagora ai suoi discepoli insediati a Crotone, capitale della Magna Grecia, precede di due millenni la comparsa del nome della malattia, «favismo», entrata ufficialmente nella storia della patologia umana nel 1894, in uno dei più importanti consessi scientifici del tempo: il Congresso di Medicina Internazionale di Roma.
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Ma nelle regioni meridionali il male, che si manifestava in alcuni individui dopo aver mangiato fave, era conosciuto da tempo con i nomi di «Itterizia endemica» e «Zafara», giallo, dall' arabo, che rimanda alla pigmentazione giallastra della cute.
Il medico siciliano Stefano Mulè-Bertòlo ne parlava già nel 1886: «La Zafara è una malattia che si manifesta durante la fioritura della fava. Gli affetti da cotesto morbo soffrono in quei giorni di cefalea, ronzio delle orecchie, vomiturazione di materie biliose, cardialgia, paralisi vescicale, ematuria o emissione di orina semplicemente gialla, prostrazione delle forze organico-vitali e tinta itterica o sub-itterica».
PITAGORA E LE FAVE
Un rebus per i medici del tempo. Per chiarire che si trattava di una malattia genetica e spiegare il suo meccanismo sarebbero stati necessari decenni di studi: il favismo è legato a un difetto enzimatico congenito nei globuli rossi, la scarsità dell' enzima G6PD (glucosio-6-fosfato-deidrogenasi).
Chi ne è affetto in contatto con le fave va incontro a un' improvvisa distruzione dei globuli rossi con grave anemia emolitica. Il difetto si trasmette attraverso il cromosoma X le donne, portatrici del gene anomalo. Si ammalano in forme lievi, mentre gli uomini ne sono colpiti in modo più grave.
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Nessun testo medico dell' antichità fa cenno a una malattia collegata alle fave. Perché, dunque, il maestro di Samo, Pitagora, impone ai discepoli di non mangiarle? Che ruolo avevano le credenze arcaiche che gli avevano trasmesso sciamani, maghi e sacerdoti incontrati durante i suoi viaggi? E quali erano le ragioni per cui si fece catturare e sgozzare dai nemici che lo inseguivano pur di non attraversare un campo di fave?
Il mistero ha attraversato i millenni col suo carico di superstizione, simbolismo e magia.
Coltivata in Europa fin dal Neolitico, la Vicia faba è una delle prime piante conosciute della storia. Le «fave di nera buccia» sono evocate più volte nell' Iliade di Omero.
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Da Aristotele a Plinio a Diogene Laerzio, l' avversione di Pitagora per le fave è passata attraverso innumerevoli interpretazioni che fanno riferimento alla potenza oscura e cosmica di cui sarebbe dotata la pianta, dai fiori macchiati di nero e dal gambo privo di nodi, che alcuni pensavano collegasse la Terra all' Ade, fornendo alle anime dei defunti la strada per tornare in vita.
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Una pianta magica , un cibo sacro agli dei dell' oltretomba e caro ai morti. Nell' Antica Roma entravano nel pasto consumato dopo le cerimonie funebri, il Silicernium e in una delle festività in cui si commemoravano gli antenati, i Lemuralia.
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Fave dei morti si chiamano i dolcetti di farina, zucchero, mandorle pestate che si consumano il 2 novembre in molte regioni del Sud Italia dove la frequenza della G6PD carenza / Favismo - che regala alle popolazioni una maggiore resistenza alla malaria - è la più elevata d' Europa e dove molti Comuni nelle loro ordinanze impongono il divieto assoluto di coltivare fave a 300 metri da scuole, edifici pubblici, strutture sanitarie, abitazioni. Dando ragione a Pitagora 2000 anni dopo.
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