MORO PER SEMPRE (COSSIGA AVEVA RAGIONE)- A 34 ANNI DALLA MORTE DI ALDO MORO, LA FIGLIA MARIA FIDA GETTA OMBRE SUL RUOLO CHE IL MOVIMENTO “FEBBRAIO 74” (CUI AVEVA ADERITO SUO FRATELLO GIOVANNI) EBBE DURANTE I GIORNI DEL SEQUESTRO DEL LEADER DC - “OCCUPARONO CASA, SEMINANDO ZIZZANIA IN FAMIGLIA SU COME GESTIRE LA TRATTATIVE CON LE BR, FINO A ISOLARCI. MIO PADRE LI ODIAVA E NELLE SUE LETTERE DALLA PRIGIONIA DICEVA DI NON FIDARCI DI NESSUNO” - LA DRAMMATICA LETTERA DI ELEONORA MORO…

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1 - FIDA MORO: "LE DIVISIONI IN CASA NON AIUTARONO MIO PADRE"
Giovanni Fasanella per "Panorama"

"Mia madre scrisse quella lettera prima di morire per rimediare ad alcune sue decisioni sbagliate. Non è un documento privato, è un testamento storico-politico, perché tocca un aspetto del caso Moro rimasto in ombra: i conflitti in famiglia durante i 55 giorni del sequestro. È giusto che ora venga messo agli atti ed entri a fare parte della storia pubblica». A 34 anni esatti dalla strage di via Fani, molte di quelle ferite non si sono ancora rimarginate.

Una sanguina più di tutte: quella che lacerò sin dall'inizio la famiglia del leader dc, rapito dalle Brigate rosse il 16 marzo 1978 e assassinato dopo 55 giorni di prigionia, il 9 maggio. Che in casa Moro qualcosa non fosse andato per il verso giusto lo si era appena intuito. Ma adesso è Maria Fida, primogenita di Aldo ed Eleonora, a sollevare il velo, commentando una lettera scritta nel 2006 dalla madre e mai resa pubblica per l'opposizione degli altri due fratelli, Agnese e Giovanni. Qualche brano della lettera è apparso tempo fa, sul sito online della Stampa.

Ma poi sul documento è calato di nuovo il silenzio. Segnata dalla tragedia familiare con 26 tumori in 34 anni e con tre preinfarti negli ultimi due mesi, Maria Fida oggi è in convalescenza. E in questa intervista con Panorama parla del movimento politico Febbraio 74, della presenza di suoi esponenti in casa Moro nei 55 giorni e del «condizionamento» esercitato sulle decisioni della famiglia.

Nella lettera, sua madre Eleonora accenna al movimento Febbraio 74. Perché?
La storia va raccontata dall'inizio. Durante i primi giorni del sequestro, una giornalista di un settimanale importante, mi pare fosse Dina Luce dell'Europeo, ci chiese di venire a casa per seguire la vicenda Moro accanto alla famiglia. Io dissi di sì, ma gli altri membri si opposero. Ecco, i problemi cominciarono proprio quel giorno.

Perché si opposero?
Devo supporre che non volessero testimoni, che non volessero far sapere all'esterno quello che accadeva nella famiglia.

Ma che cosa avrebbe potuto mai raccontare, d'imbarazzante per la famiglia Moro, la giornalista Dina Luce?
È un tasto molto delicato, ma provo a spiegarmi. Qualche giorno dopo il sequestro, i miei fratelli non volevano che io partecipassi ai funerali degli uomini della scorta. Il motivo? Poteva essere pericoloso per mio figlio Luca... Io ci andai lo stesso, ma fui bloccata all'ingresso della chiesa. Per fortuna un agente mi riconobbe e mi fece entrare. Quell'episodio fu l'inizio della guerra in famiglia contro di me e costituì uno dei punti di svolta dell'intera vicenda Moro. La tensione era tale che un giorno mia madre si gettò in ginocchio e, in lacrime, mi supplicò di andarmene via di casa.

Perché lei non poteva rimanere in casa?
Il nodo è tutto qui. Io mi sarei battuta per fare esattamente quello che papà ci chiedeva dalla «prigione del popolo». Voleva che ci mobilitassimo, che facessimo qualcosa per tirarlo fuori da lì. E probabilmente io sarei riuscita a convincere anche la mamma. Ma forse era quello che qualcuno temeva.

Ma, scusi, la liberazione di Moro non era proprio l'obiettivo della famiglia?
È ovvio che fosse così. Ma a giudicare dai fatti, chi dava suggerimenti al resto della famiglia doveva essere proprio un pessimo consigliere. Un gruppo esterno aveva «occupato» casa nostra sin dal giorno del sequestro: quelli del movimento Febbraio 74 diretto dall'avvocato Giancarlo Quaranta, cui aveva aderito mio fratello Giovanni.

Quindi, lei in casa avrebbe infastidito?
Molto.

Ma perché?
Bisognerebbe capire come ragionavano i leader di quel movimento, dove volevano andare a parare e se a loro volta erano consigliati da altri. Certo è che avevano la pretesa di «gestire» l'atteggiamento della famiglia: loro, non Aldo dalla prigione, non Eleonora dall'esterno, e tanto meno la figlia primogenita Maria Fida che era stata cacciata di casa. Papà, nonostante la sua condizione, se n'era accorto.

Come fa a esserne sicura?
In due lettere inviate a mamma le diceva di non ascoltare i consigli di nessuno, tanto meno di estranei, e di andare in televisione per invocare una trattativa. Non si fidava di nessuno. E voleva che fosse lui dalla prigione, e noi da casa, a gestire la situazione.

Suo padre conosceva il movimento Febbraio 74?
Certo che lo conosceva. E lo detestava. I suoi collaboratori mi avevano raccontato che, nelle elezioni del 1976, Febbraio 74 aveva fatto campagna contro la Dc con un manifesto in cui si accusavano i democristiani di essere tutti ladri, e che tra i primi firmatari c'era anche mio fratello Giovanni. Mamma poi riferì che papà si era talmente offeso che, da quel momento, non aveva più voluto rivolgere la parola a mio fratello: comunicava con lui soltanto tramite lei.

Quali consigli dava Febbraio 74?
Indirizzava la mamma e i miei fratelli verso un atteggiamento che, a mio avviso, non avrebbe potuto mai portare a risultati positivi. Un atteggiamento di chiusura, di astio nei confronti di tutto e tutti. Riuscirono a mettere la famiglia persino contro la Dc. Rimanemmo completamente isolati.

Era a questo che si riferiva Francesco Cossiga, quando diceva che all'interno della famiglia c'era chi si comportava come se non volesse la liberazione di Moro? Sembrerebbe un paradosso, ma ho ragione di ritenere che Cossiga si riferisse proprio a questo. Tra le persone che giravano in casa in quei giorni, oltre a tanti cari amici, c'era anche chi sembrava essersi introdotto esclusivamente per dividerci. Di questo io sono sempre stata convinta.

Se fossimo rimasti uniti e avessimo seguito i consigli di papà, avremmo fatto tutto il possibile per salvarlo rivolgendoci direttamente all'opinione pubblica. Papà ci diceva che sarebbero bastate le firme di 100 parlamentari per costringere lo Stato a trattare. Ma invece eravamo divisi, isolati, troppo deboli. Inevitabile che finisse com'è finita.

Ma perché sua madre lasciava fare? Possibile che non si rendesse conto?
Si illudeva che in quel modo potesse limitare i danni mantenendo almeno un'unità formale della famiglia. Sapeva che io avrei comunque rispettato le sue decisioni. Pur non condividendole e sapendo che cosa diceva papà di quel movimento. Pensi che, sin dal 16 marzo, i suoi capi si comportavano come se la nostra casa fosse la loro, sentendosi in diritto persino di spostare cose.

Neppure i suoi fratelli si rendevano conto?
Erano in simbiosi con quel gruppo. Io cercavo di farlo capire a mia madre. Ma non c'era niente da fare: se fossi rimasta in casa, sarebbe stata guerra continua. Per questo mi chiese di andarmene.

In seguito ha avuto modo di parlarne con sua madre?
Sì. E lei ha ammesso in lacrime di avere fatto «un macello». L'isolamento esterno della famiglia e le divisioni interne provocate da elementi estranei concorsero a determinare il tragico epilogo del sequestro.

Dopo la morte di suo padre, lei è potuta tornare a casa?
Sì, ma dopo tanto tempo. Intanto avevo perso il lavoro di giornalista alla Gazzetta del Mezzogiorno, conseguenza dei pessimi rapporti tra la famiglia Moro e la Dc. La mia elezione in Parlamento mi aiutò poi a risalire la china. Tornai a casa perché avevano bisogno di me. La mia indennità parlamentare fu completamente bruciata per pagare i debiti della famiglia, che era rimasta senza reddito finché la mamma non ricevette la sua pensione. Ho dovuto vendere i miei regali di nozze e la mia stessa casa, per aiutare mamma e i miei fratelli.

Una vita terrificante. Per le conseguenze subite sul piano emotivo, economico e persino fisico. Ma soprattutto a causa di un terribile, lacerante senso di colpa per non essere riuscita a fare quello che papà ci chiedeva. E che tutti insieme avremmo dovuto e potuto fare, se esterni ritenuti pericolosi dallo stesso papà non avessero controllato ogni mossa della famiglia. Ancora oggi non riesco a capire come sia potuto succedere.

2 - LA LETTERA DI ELEONORA E LA GUERRA TRA FRATELLI
Nella lettera scritta il 9 gennaio 2006 nello studio romano dell'avvocato Pompilia Rossi, Eleonora Moro ripercorre alcune vicende «che mi hanno dato estremo dolore». Al di là degli aspetti più privati sui conflitti insorti tra i figli, un punto è di notevole interesse pubblico.

Eccolo: «Lo studio di mio marito sito in via Savoia è stato occupato arbitrariamente da Giovanni Moro e dai componenti del Febbraio 74, provvedendo addirittura a sostituire la serratura della porta. Io ho scelto il male minore e invece di allertare i carabinieri, per non esporre il nome di Moro ho fatto sì che i legittimi proprietari del suddetto appartamento (...) ne facessero dono a Giovanni.

Così facendo però ho ottenuto due risultati indebiti. Fida e Anna (l'ultima dei quattro figli, ndr) sono rimaste tagliate fuori dall'accesso allo studio e addirittura alla visione di qualunque documento del padre (...) Ciò ha provocato, con l'esclusione di gran parte
dei componenti della famiglia Moro, un gravissimo danno morale con la impossibilità di prendere visione dei documenti contenuti nell'archivio».

 

 

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