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Stefano Feltri per "il Fatto Quotidiano"
Anche al Fondo monetario internazionale incrociano le dita e sperano che vada tutto bene (o non troppo male) e che Mario Monti riesca a essere il mediatore che serve all'Europa per limitare i danni della linea tedesca del rigore. "L'Italia è a un buon punto e ha fatto notevoli progressi negli ultimi sei mesi", annuncia il capo del Fmi in Europa Reza Moghadan, in una conferenza stampa al ministero del Tesoro mentre Monti e il suo viceministro Vittorio Grilli sorridono soddisfatti.
Dopo due settimane di ispezione, i funzionari del fondo annunciano i risultati del monitoraggio annuale che compiono su tutti i Paesi (noto come "articolo 4"). I toni sono entusiastici, ricorre l'aggettivo "impressive", impressionante, i tecnici si lanciano addirittura in una mirabolante stima: se l'Italia adotta le riforme strutturali e riesce ad arrivare in linea alla media Ocse (qualunque cosa significhi), il Pil crescerà del 6 per cento. Che significa? Poco. Ma è utile per i titoli dei giornali.
A leggere bene il testo del comunicato che riassume l'esito della missione del Fmi, i toni sono un po' diversi. In tutta la conferenza stampa c'è soltanto un vago accenno al punto due del testo che parla di rischi al ribasso delle previsioni di crescita - già sono molto più basse di quelle del Tesoro -1,9 per cento nel 2012, contro -1,2 - dovuto al "rinnovato tumulto finanziario " che farà crescere il costo del debito, aggraverà la stretta creditizia bancaria, e un rallentamento dell'economia reale.
Non solo. Quando il fondo chiede un "consolidamento fiscale più amico della crescita" (growth-friendly) intende chiaramente dire che finora tasse e tagli hanno aggravato la recessione, anche se hanno migliorato i saldi. Ma Moghadan e gli altri due funzionari, Aasim Husain e Kenneth Kang non enfatizzano i problemi dell'Italia, l'abituale richiesta di privatizzazioni (punto dolente per Monti) è confinata al punto 16, c'è la richiesta di attuare subito la riforma del lavoro e di ridurre il costo del personale nel pubblico. Ma anche questo passaggio non merita più che un accenno in conferenza stampa.
Sono lontani i giorni del G20 di Cannes, a novembre 2011, che Monti evoca con un certo compiacimento, in cui il governo Berlusconi doveva chiedere al Fmi un'assistenza straordinaria, con un programma apposito di consulenza, sulle riforme da fare (era il primo passo per un allora eventuale ma probabile prestito di emergenza). Il premier rivendica: "Il nostro Paese ha dimostrato di poter fare le riforme da solo".
Di quell'assistenza straordinaria si sono perse le tracce, è stata abbandonata con discrezione, non serviva più senza Berlusconi. Oggi Monti è il referente di tutto l'asse atlantico, dalla Casa Bianca a Londra al Fondo monetario, per sostenere le ragioni della crescita in Europa nel tentativo di far ragionare la Germania, e quindi fanno di tutto per blindarlo, almeno fino al 2013 quando l'Italia tornerà a essere un'incognita politica. Peccato che ci siano i mercati, ieri lo spread tra titoli italiani e tedeschi è rimasto alto, sopra i 430 punti. "Non possiamo indicare una soglia massima dello spread sostenibile", schiva le domande Aasim Husain, vicedirettore del dipartimento europeo del Fmi.
Dietro l'ottimismo e i sorrisi, però, c'è il timore che le cose in Europa siano sempre più compromesse. Il vertice di martedì sera tra il presidente francese François Hollande e la cancelliera Angela Merkel non ha prodotto risultati. Il presidente della Commissione europea, José Barroso, come sempre piccato quando ci sono vertici bilaterali che scavalcano Bruxelles, ha dichiarato: "Noi vogliamo che la Grecia resti nella nostra famiglia, nell'Ue e nell'euro, la Commissione sta lavorando instancabilmente a questo scopo, ma la decisione finale di restare nell'Eurozona deve arrivare dalla Grecia".
Pilatesco quasi quanto il presidente della Bce, Mario Draghi: "Preferiamo che la Grecia resti nell'euro" ma visto che nei trattati non è prevista l'uscita di un Paese dalla moneta unica "ritengo che non sia un argomento su cui la Bce debba decidere". Facciano i greci, insomma. Che hanno già dimostrato col voto del 6 maggio di non avere più fiducia nei partiti europeisti.
Difficile che cambino idea da qui al 17 giugno, quando si tornerà a votare visto che è fallito ogni tentativo di formare un governo. I problemi dei greci non sono più soltanto dei greci da molto tempo. E già circolano le prime stime sulle ripercussioni che avrebbe una crisi bancaria greca, conseguente all'uscita dall'euro, sugli altri due Paesi più deboli. Spagna e Italia.
CHRISTINE LAGARDE MARIO MONTI E IL DITINO ALZATO SILVIO BERLUSCONI barroso angela_merkelFRANCOIS HOLLANDEMariano Rajoymario draghi
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