DAGOREPORT - BLACKSTONE, KKR, BLACKROCK E ALTRI FONDI D’INVESTIMENTO TEMONO CHE IL SECONDO MANDATO…
Da corriere.it
«Alla faccia di Salvini, tié!». I forbicioni gialli sono di cartone e le poltrone rosse sono dipinte sul maxi striscione bianco, ma il taglio questa volta è vero e Di Maio, Fraccaro, D’Incà, esultano increduli in piazza Montecitorio per la «riforma storica, che ricorderanno i nostri figli e i nostri nipoti». La ricorderanno anche molti dei 553 deputati che hanno pigiato il bottone dell’autodistruzione, in un clima di rassegnazione mascherata da atto di responsabilità, «per il bene del Paese».
I 5 Stelle ostentano sorrisi imposti dalla disciplina di partito, i dem invece sono in lutto e lo rivelano anche nell’abbigliamento. Andrea Giorgis, responsabile riforme del Pd, sfoggia una cravatta plumbea e ammette che non l’ha pescata a caso. Debora Serracchiani indossa una giacca nera con righina bianca, che ricorda quei biglietti da visita usati per porgere le condoglianze: «Non sono contenta, l’ho votato senza entusiasmo».
Al bancone della buvette, un gruppetto di deputati del Movimento brinda a prosecco di Valdobbiadene. Evviva. Ma il profumo destinato a finire nelle cronache parlamentari è un altro. Tacchino arrosto, metafora abusata dai deputati rassegnati a infilarsi nel forno delle riforme. Ecco Paolo Barelli di Forza Italia, che scherza con Giancarlo Giorgetti mimando con la mano una padella: «Li vedi questi? Sono tutti tacchini alla griglia». Tra pizzette e piadine il ministro Federico D’Incà sparge ottimismo, profetizza «600 sì» e rende giustizia ai «volatili» della Camera: «Basta tacchini e capponi, siamo gente seria che pensa al bene del Paese».
flash mob m5s per il taglio dei parlamentari 2
Pochi, nella maggioranza, hanno voglia di scherzare. «Domanda di riserva?», implora il ministro di Leu Roberto Speranza. Per Nicola Acunzo, attore che ha recitato con Mario Monicelli, «toccare la Costituzione è sempre un azzardo». Lo sa bene il capogruppo del Pd, Graziano Delrio. Per scrivere il discorso della grande capriola, votare sì in quarta lettura dopo aver bocciato le precedenti tre, l’ex ministro si è chiuso a lungo nella sua stanza a Montecitorio.
Una volta in aula Delrio giura che «non c’è nessuna cambiale in bianco, nessun ricatto, nessuna svendita», annuncia il «voto convinto» degli 89 reduci dalla scissione e incassa un coretto di «buu» da Lega e Fratelli d’Italia. Si arrende alla disciplina di partito anche Matteo Orfini, che per giorni aveva tentato la resistenza dell’ultimo giapponese: «I correttivi hanno ridotto il danno, ma la riforma fa schifo lo stesso e il partito l’ha gestita malissimo, perché l’abbiamo votata gratis».
Non c’è un grammo di pathos, una briciola di solennità, un pizzico di afflato costituente tra gli scranni, dove i deputati vanno e vengono, telefonano e chiacchierano senza rispetto alcuno per l’oratore del momento. Piero Fassino supplica Di Maio di smetterla con la «retorica dei costi», che toglie credibilità alle istituzioni: «Noi non siamo profittatori». L’azzurro Simone Baldelli, avvistato in un corridoio mentre faceva le prove del discorso («Robespierre era il più popolare fino al momento prima che gli tagliassero la testa»), vota «coerentemente no» e mette il dito nella piaga dell’incoerenza altrui: «Tanti enumerano le ragioni per cui votare contro, ma poi finiscono per annunciare il loro sì». È il caso di Roberto Giachetti, di Italia viva. L’ex vicepresidente della Camera si tappa il naso perché la riforma lo disgusta e mentre vota a favore apre, a parole, il primo comitato per il no al referendum.
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