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Tommaso Labate per il “Corriere della Sera”
«Ero appena atterrato dal Sudamerica, rintontito dal fuso orario. Mi chiama Paolo Del Debbio, "devi venire con me da una persona". All' epoca, era il '93, avevo appena chiuso il mio centro di ricerche liberista perché non avevamo risorse per andare avanti. Pensavo volesse presentarmi un finanziatore. E invece mi portò a via dell' Anima a casa di Berlusconi, che avevo intravisto anni prima a casa di Roberto Gervaso».
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Stava per iniziare la storia di Forza Italia. Di cui lei, Antonio Martino, prese la tessera numero due.
«Subito gli do la prima delusione. Mi chiede "professore, le piace il calcio?". Risposi di no. Lui mi disse "se sono a guardare una partita e qualcuno mi dice che una bella donna vuole conoscermi, io prima finisco di vedere la partita". Mi spiegò anche che per lui il calcio era l' unica religione, il resto solo affari».
Altro che delusione. Dopo quell' incontro lei scriverà il programma.
«Ogni volta che avevo un' idea gliela mandavo via fax. Fax dopo fax, prese corpo il programma di Forza Italia del '94».
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Il nome Forza Italia le piaceva?
«Dissi a Berlusconi che per fare un partito bisognava innanzitutto mettere la parola "partito" nel nome. Evidentemente avevo torto».
Eravate sfavoriti.
«Gli avevo sconsigliato sin da subito di entrare in politica. Ricordo la risposta: "Quando volevo fare una città satellite e i miei amici mi ridevano dietro, poi ne ho fatte due. Quando avevo detto a Boniperti che avrei portato il Milan sul tetto d' Europa e lui s' era messo a ridere, poi ce l' ho fatta. Quando avevo spiegato ad Agnelli che avrei fatto concorrenza alla Rai e anche Agnelli aveva riso be', ha visto come andata a finire. Adesso dico a lei che tra pochi mesi sarò presidente del Consiglio"».
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E lei, professore?
«Mi voltai dall' altra parte per non ridergli in faccia».
E invece...
«Io ero sempre più terrorizzato dall' entusiasmo che avevamo innescato nella gente.
Ero candidato al maggioritario a Milano e al proporzionale in Sicilia. A Milano, un giorno che passavo per strada, s' era fermato un tram. Il conducente era sceso a darmi la mano e tutti i passeggeri applaudivano. Non sembrava neanche vero».
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L' ultimo giorno prima del voto del '94.
«Traghetto Messina-Reggio, tornavo a Roma sfinito. Mi chiama Berlusconi: "Allora, professore?". Gli rispondo "Se va come dice lei, domani sera mia moglie va a letto con un deputato". E dire che non volevo neanche candidarmi. Dopo la proposta di Berlusconi, avevo telefonato al mio maestro Milton Friedman. "Antonio, non fare mai compromessi sui principi. Falli sui dettagli"».
E accettò.
antonio martino silvio berlusconi
«Per non fare compromessi sui miei principi, però, ho sempre rifiutato dicasteri economici. Berlusconi mi chiama e mi dice: "E se ti proponessi per gli Esteri?". E io: "Mi sembra perfetto. La Farnesina è vicino casa e ha un parcheggio immenso. Ci sto"».
Durò poco. Ma la storia poi è andata avanti. Altre vittorie, altri governi. Il momento più buio?
«Nel 2005, il giorno in cui approvammo il Porcellum. A fine votazione dissi in Aula "speriamo che un giorno Dio ci perdoni". Non sono sicuro che l' abbia fatto».
L' ultima volta che ha sentito Berlusconi?
«Il 22 dicembre. Mi ha chiamato per il mio compleanno.
Lo sento ogni 22 dicembre».
Avete ricordato i vecchi tempi?
«Mai. Berlusconi parla sempre del presente o del futuro, mai del passato».
Resta una questione. La famosa tessera numero 2.
«Eravamo dal notaio per la fondazione del partito. C' era Berlusconi, ricordo Mario Valducci Berlusconi prese la tessera numero 1. A me, che avevo scritto il programma, diede la 2».
Esiste ancora?
«Per anni l' ho portata con me. Poi, a un certo punto, l' ho messa in uno scatolone insieme ad altre cose che mi illudo possano servire al mio biografo. Ma che invece, con tutta probabilità, finiranno in un cassonetto della spazzatura il giorno che mi deciderò a tirare le cuoia».
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