DAGOREPORT - BLACKSTONE, KKR, BLACKROCK E ALTRI FONDI D’INVESTIMENTO TEMONO CHE IL SECONDO MANDATO…
Igor Pellicciari per www.formiche.net
Ci sono date universali di cui è inevitabile ricordarsi anche i minimi dettagli. Una di queste è l’11 settembre 2001.Nonostante il tempo passato, ogni over-35 sa cosa faceva e dove si trovava quel giorno.
Ebbene, nei giorni precedenti l’attacco alle Twin Towers, le cronache internazionali erano dominate da due argomenti non collegati: il timore di una guerra civile in Macedonia (già si sparava alle porte di Skopije) e l’annuncio della fine, data per imminente, del dominio di Alexander Lukashenko in Bielorussia.
Dopo la tragedia di New York l’attenzione internazionale e degli Usa, all’epoca unica potenza in campo dopo la fine del bipolarismo, si spostò dall’altra parte del mondo. Forse proprio per questo (saranno gli storici a dircelo), nel periodo che seguì, in Macedonia la situazione si stabilizzò in un equilibrio precario giunto ai giorni nostri; mentre a Minsk il presidente bielorusso consolidò ulteriormente il suo potere.
ALEKSANDR LUKASHENKO VLADIMIR PUTIN 1
Da allora, la situazione in Bielorussia è uscita dalle headlines occidentali, trattata poco e con stereotipi ripetitivi; in primis quello di un Lukashenko controllato dal Cremlino. In realtà i rapporti Mosca-Minsk, poco noti al di fuori dei due paesi, sono stati molto più complessi e tutt’altro che scontati.
manifestazione di protesta a minsk contro lukashenko 13
In carica da prima dello stesso Putin e considerandosi rispetto a questo un veterano, l’uomo forte di Minsk si è spesso smarcato dal Cremlino, arrivando addirittura allo scontro se non all’incidente diplomatico (l’ultimo poche settimane fa, con il fermo dei contractors di Wagner, accusati di cospirazione). E ricordando, nel suo porsi filo-russo ma autonomo verso Mosca, il comportamento dell’ex- presidente ucraino Viktor Yanukovich, durante il suo catastrofico secondo mandato.
Questi rapporti “dinamici”, pur in un quadro generale di alleanza, sono spesso sfuggiti agli analisti occidentali che hanno sottovalutato la filosofia russa del gestire le proprie regioni periferiche e\o gli alleati-satellite con uno schema da “pax romana”. Vale a dire, facendo accordi con i leader locali amici emersi vincitori dello scontro per il potere, piuttosto che imponendone dei nuovi mandati dal Centro.
manifestazione di protesta a minsk contro lukashenko 38
È un modello centralista che ha consentito all’Impero (non solo romano) di gestire vastissimi territori; ma anche costretto il Centro stesso a tollerare passivamente scontri di potere nati e risolti localmente tra i propri sostenitori. Le contestate recenti elezioni presidenziali a Minsk hanno fatto emergere con forza una serie di frustrazioni politiche e sociali accumulate da tempo da parte di ampi settori della popolazione soprattutto urbana, aggravate dal Covid.
manifestazione di protesta a minsk contro lukashenko 24
Come altrove, la pandemia ha fatto addormentare le pubbliche opinioni nella paura e le ha risvegliate nel risentimento. La repressione delle proteste ordinata da Lukashenko ha fatto il resto ed è servita da detonatore. Ora che la rivolta a Minsk è esplosa imponente e spontanea, ad essere spiazzato non è stato solo Lukashenko ma le stesse cancellerie Occidentali che non hanno nella loro attuale agenda diplomatica una “democratizzazione” della Bielorussia.
aleksandr lukashenko in piazza 6
Questo è il primo motivo per cui non assisteremo a breve al ripetersi di un altro Maidan ucraino a Minsk.
Da un lato, gli Stati Uniti sono presi da una delle più divisive campagne presidenziali della loro storia e comunque né Donald Trump (che si interessa di scenari più ad effetto come Corea del Nord o Medio-Oriente) né Joe Biden (comunque ammaccato dalle voci sui suoi conflitti di interesse in Ucraina) mostrano troppo entusiasmo per quanto accade in Bielorussia.
bielorussia, proteste per la rielezione di lukashenko 19
Dall’altro, l’Unione europea è indebolita da una crisi politica interna per via del Covid e, tagliati drasticamente i fondi per l’European Neighbourhood and Partnership Instrument (ENPI) per via del Recovery Fund, non può essere l’attore “pay-but-not-play” (paga i costi dell’intervento internazionale senza incidere) come visto in molteplici scenari, dal Kosovo, all’Albania, alla Bosnia, alla stessa Ucraina.
Né va dimenticato che il fronte occidentale, visto il precedente della Crimea, sia più prudente nel decidere un nuovo intervento che, ancorché politico, potrebbe provocare un altro over-reacting di Mosca, contro il quale poco possono le armi spuntate di nuove sanzioni.
Alla luce di questa cautela euro-atlantica e della reazione surreale di Lukashenko alle proteste (mimica e retorica ricordano gli ultimi giorni di Ceausescu nel 1989) è evidente che l’esito della situazione dipenderà da come si muoverà la Russia.
Consapevole della difficoltà di intervenire proprio per via dei troppi legami profondi tra società e politica dei due Paesi, che ostacolano una strategia a mente fredda come quella, quasi perfetta, adottata in Siria, Mosca cerca comunque di non ripetere a Minsk gli errori commessi a Kiev; forte del fatto di potere agire questa volta con maggiore calma e senza altri competitors internazionali di rilievo.
aleksandr lukashenko in piazza 7
L’ipotesi di sostenere Lukashenko a restare ancorato al potere sembra perdere terreno a Mosca, anche se questa opzione avrebbe il vantaggio di sancirne definitivamente una dipendenza da una posizione di inedita debolezza nei confronti del Cremlino.
ALEKSANDR LUKASHENKO VLADIMIR PUTIN
Ancora più improbabile sarebbe un’azione di forza a riguardo (richiesta peraltro da Lukashenko alla Russia) per il danno di immagine che porterebbe a Mosca sia a livello internazionale sia, soprattutto, a livello interno dove, tra Covid-guerra del greggio-riforme costituzionali, la popolarità di Putin (si badi, non il consenso) ha fatto registrare un calo che è suonato come un campanello d’allarme.
D’altro canto si fa strada la convinzione che, per mantenere Minsk nell’orbita russa, sia necessario anticipare un cambio della leadership dall’interno prima che venga sollecitato da fattori esterni, con esiti fuori controllo. Irritata da tempo per i suoi comportamenti spavaldi, anacronistici e fuori controllo, l’impressione è che Mosca stia già cercando a Minsk un sostituto a Lukashenko, oramai indifendibile e logorato dal potere.
Ugualmente improbabile è che il Cremlino apra alla attuale opposizione (come alla candidata alle presidenziali Svetlana Tikhanovskaya, rifugiatasi in Lituania) troppo vicina ai paesi baltici, esterna alla funzione pubblica ed ai gruppi economici dominanti in Bielorussia, a loro volta legati in osmosi al sistema politico ed al mercato protetto russo, da cui dipendono nella quasi totalità.
Piuttosto, attenendosi alla ferrea regola di alimentare la continuità dell’establishment, il Cremlino pare stia già interagendo sui settori del Deep State bielorusso più vicini a Mosca perché emerga, dal contesto governativo di Minsk, un nuovo-vecchio leader.
Solo cosi si spiegano episodi prima impensabili che vanno dalla presa di distanza dalle repressioni di ampi settori dei potenti servizi di sicurezza; alle dimissioni presentate dall’Ambasciatore in Slovacchia Igor Leshenya (il diplomatico di carriera più di lungo corso negli affari esteri bielorussi), al recentissimo siluramento da parte di Lukashenko del primo ministro Siarhiej Rumas, tra i visi nuovi dell’establishment più popolari in patria e graditi a Mosca.
In carica dal 2018 e fautore delle riforme strutturali delle privatizzazioni, Rumas ha goduto di un’importante visibilità positiva nel mainstream russo che ne ha lanciato un immagine di leader emergente riformista, opposta al look ancora sovietico di Lukashenko.
Una ascesa alla presidenza sua (o di un altro simile candidato istituzionale), sponsorizzata dietro le quinte dal Cremlino, esemplifica al meglio il modello di avvicendamento al potere attraverso una soluzione interna di establishment.
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