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Ilario Lombardo per “La Stampa”
comizio di chiusura di carlo calenda a piazza del popolo 1
C'è chi lo fa con un senso di rivincita, chi per dimostrare di potercela fare, chi per riprovarci ancora, ma altrove, da dove in qualche modo era stato cacciato. Hanno la simpatia di chi parte sfavorito, che si vuole togliere l'etichetta del perdente annunciato, ma che sa anche, maliziosamente, che la sconfitta sarà, in qualche modo, comunque una vittoria. Ci si misura in vista di altri obiettivi. Ognuno ha la sua ragione per battersi.
Carlo Calenda, Antonio Bassolino, Luigi De Magistris. Queste elezioni locali, all'alba del semestre bianco - che è quella no man's land in cui la scena politica si riorganizza - sono una corrida speciale per toreri che danzano solitari e si pongono ingombranti tra i classici dualismi elettorali.
luigi de magistris in versione che guevara
Sono "disturbatori", o perlomeno nascono con questa fama inacidita. Partono che sono già noti, personalità elettriche e voluminose. Ognuno con un diverso grado di ambizione. Prendiamo Calenda. Ex ministro, eletto nel Pd in Europa, uscito dal Pd per fondare Azione. Ha chiesto al suo vecchio partito di sostenerlo per la conquista del Campidoglio. È stato prima ignorato, poi deriso, poi combattuto, ora lo temono.
comizio di chiusura di carlo calenda a piazza del popolo 10
Di suo, ci ha messo una buona dose di astuzia e di "bullismo" social. Ma l'odore del napalm al mattino, quando apre Twitter già carico di vetriolo, non sarebbe bastato a farsi largo tra il candidato del centrodestra Enrico Michetti, l'uomo della sinistra Roberto Gualtieri e la sindaca uscente del M5S Virginia Raggi, se non fosse stato accompagnato da una sudatissima campagna elettorale partita in anticipo e trascinata in ogni angolo della Capitale.
La sua azione di disturbo potrebbe essere fatale a Gualtieri, ancor di più se al secondo turno la sfida fosse tra lui e il candidato Pd. Se dovesse finire al ballottaggio sarebbe un trionfo, l'epilogo canonico dell'outsider. Ma nella strategia di Calenda è chiaro che comunque vada ha ottenuto quello che voleva: rubare una porzione di scena alla politica italiana, come uno dei protagonisti con il quale - lo dimostra l'endorsement del numero due della Lega Giancarlo Giorgetti - bisognerà fare i conti.
enrico michetti roberto gualtieri virginia raggi carlo calenda foto di bacco
Matteo Renzi, ex premier, ex segretario del Pd e leader oggi di un partito che annaspa attorno al 3%, sa benissimo che il disturbatore può trarre la sua forza dalle capacità di indebolire i possibili alleati o i vecchi compagni di squadra.
È la rivalsa dei ripudiati. Antonio Bassolino sta assaporando di nuovo il calore dei riflettori, candidato a Napoli, ventuno anni dopo aver concluso il suo secondo mandato da sindaco, prima di diventare per altri dieci anni governatore della Campania. Dirigente del Pci e dei Ds, tra i fondatori del Pd, un re del partito che diventa eretico ribelle a 74 anni: nella sua parabola c'è scritta tutta la violenza del divorzio dal partito dopo un'inchiesta sui rifiuti da cui è uscito assolto.
VINCENZO DE LUCA ANTONIO BASSOLINO
Alla ricerca di un risarcimento morale, avrebbe voluto rientrare con le glorie di una candidatura. Il partito gli ha detto di no e lui si è candidato lo stesso chiedendo di votare un sindaco e non i partiti. Stesso slogan di Calenda che, infatti, lo sostiene a Napoli. Si ritrova terzo incomodo a testimoniare il primato che fu della carriera politica in mezzo a due candidati civici.
Domani sapremo se la sua testardaggine può azzoppare il magistrato Catello Maresca, e se impensierirà seriamente l'ex rettore Gaetano Manfredi, a cui sono rivolte le preghiere del presidente M5S Giuseppe Conte e del segretario Pd Enrico Letta. In fondo, dieci anni fa, proprio a Napoli un ex magistrato cavalcando il palcoscenico televisivo si incoronò sindaco con una bandana arancione attorno alla testa.
Era da solo e senza il partito principale della sinistra alle spalle. Guastafeste per eccellenza, Luigi De Magistris, dopo dieci anni a Palazzo San Giacomo ci riprova in Calabria. È la regione che lo ha consacrato pm di lotta e di tv, dove partirono inchieste che coinvolsero altissimi nomi della politica nazionale e da dove andò via inseguito dai procedimenti disciplinari.
Nel nome del suo partito, Dema, che starebbe per Democrazia e Autonomia, ma che per narcisismo chissà quanto involontario è composto dalle iniziali del suo cognome, c'è inscritta l'alta considerazione che ha di se stesso. Si candida con il retrogusto della rivincita e il sogno di governare la terra dove da bambino andava in vacanza e dove è cresciuta la moglie. Di nuovo da solo, rifiutato sdegnosamente da Pd e M5S, che ora se lo trovano alle spalle e rischiano di precipitare sul suo sgambetto.
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