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Francesco Grignetti per "La Stampa"
Sul caso Regeni, molte cose sono ancora da raccontare. Ad esempio che c'è stato un tentativo occulto da parte del governo italiano, esattamente un anno fa, per sbloccare l'impasse giudiziaria con al-Sisi.
L'allora premier, Giuseppe Conte, chiamò Marco Minniti e lo pregò di fare un tentativo con il Cairo. L'ex ministro, politicamente parlando era una figura assai indigesta per i grillini. E quindi Conte dovette ingoiare un bel rospo, ma siccome la cooperazione giudiziaria con gli egiziani era a un punto morto, e invece era urgente che gli indagati nominassero un avvocato di fiducia in Italia, ecco che Conte fece il passo.
luciana lamorgese marco minniti
In tutta segretezza, Minniti fu nominato «inviato speciale del presidente del Consiglio» e in questa veste volò per almeno due volte al Cairo. Di questa missione segreta c'è traccia nella Relazione finale della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla morte di Giulio Regeni, presieduta da Erasmo Palazzotto.
gianni letta marco minniti (2)
«Gli sforzi diplomatici profusi dal Governo - si legge nella Relazione, che sarà discussa dalla Camera a gennaio - per l'acquisizione dell'elezione di domicilio degli imputati si sono rivelati infruttuosi, nonostante le missioni ad hoc svolte al Cairo nel novembre dello scorso anno dall'ex ministro Minniti, in qualità di inviato speciale del Presidente del Consiglio, per superare la condizione di stallo grazie alla sua esperienza pregressa».
marco minniti saluta francesco verderami
C'è da sapere che queste tre righe sono state il frutto di una lunga riflessione a palazzo Chigi, che solo alla vigilia della conferenza stampa di mercoledì hanno dato il via libera per pubblicare la notizia.
In effetti Minniti poteva vantare una certa «esperienza pregressa». Era stato grazie a lui se nel 2017 una prima rottura di rapporti, quando il nostro ambasciatore era stato ritirato, fu ricucita e se i magistrati della Procura di Roma dopo un lungo periodo di gelo tornarono ad incontrarsi con i colleghi del Cairo.
Il 14 dicembre di quell'anno, l'allora ministro Minniti incontrava il presidente al-Sisi e lo stesso giorno «c'è stato un ulteriore passo in avanti - si legge nella Relazione - dal forte valore simbolico: la consegna degli atti processuali alla famiglia Regeni».
Al-Sisi garantì, direttamente al e poi pubblicamente, che la cooperazione giudiziaria sarebbe andata avanti. Nei giorni seguenti, i pm romani avrebbero avuto il settimo incontro con i colleghi egiziani. Nell'autunno 2020, insomma, Giuseppe Conte volle provare nuovamente la carta Minniti.
I rapporti con l'Egitto erano sempre sul filo. Nell'estate, però, il governo aveva deciso di vendere due fregate Fremm ad al-Sisi. Furono necessari due passaggi in consiglio dei ministri, il 10 giugno e il 7 agosto, per perfezionare la vendita e soprattutto per avere la massima condivisione di responsabilità tra le forze politiche su questa scelta.
Nessuno potrà mai dire se la vendita fosse un semplice business da 1 miliardo di euro o dovesse servire a ingraziarsi il regime. Di certo, Conte ha riconosciuto che a quel punto «una mancata vendita sarebbe stata considerata dal Cairo un atto ostile».
Quello stesso Conte che ieri commentava: «Il lavoro della Commissione rende ancora più urgente e ineludibile il processo nei confronti degli ufficiali degli apparati di sicurezza egiziani, in modo da rischiarare con definitiva luce giudiziale una pagina oscura della nostra storia più recente».
Minniti si precipitò in Egitto. E un risultato è agli atti: il 5 novembre, ci fu un primo contatto dopo quasi un anno di silenzio; il 30 novembre, le due procure si parlarono nuovamente in videoconferenza.
Il procuratore Michele Prestipino e il sostituto Sergio Colaiocco illustrarono lo stato delle investigazioni e chiesero un aiuto ai magistrati del Cairo, sia pure indiretto, per convincere gli indagati a formalizzare il domicilio e cioè, in sostanza, a sottoporsi al processo in Italia.
Al termine, fu emesso un comunicato congiunto che parve da subito contraddittorio. Le due parti presentavano idee antitetiche: gli italiani annunciavano il processo per gli agenti; gli egiziani insistevano per la pista dei rapinatori comuni.
Ma poi si concludeva: «Il procuratore generale del Cairo prende atto e rispetta le autonome decisioni della magistratura italiana». Chi sapeva della missione occulta di Minniti pensò che quella frase anodina fosse il preludio a uno sbocco positivo.
A palazzo Chigi ci si congratulò per aver scelto la persona giusta. Ma le cose andarono diversamente. A metà dicembre, come annunciato, la procura depositò l'avviso di fine indagini con la ricostruzione dei fatti e le imputazioni.
manifestazione per giulio regeni
Il 30 dicembre, con un documento unilaterale durissimo e quasi offensivo, la procura generale del Cairo attaccava frontalmente il lavoro di Roma, lo demoliva, ipotizzava dietro l'omicidio di Giulio Regeni fantasiosi complotti ad opera di potenze terze per incrinare gli ottimi rapporti italo-egiziani.
Ogni possibile collaborazione tra le due sponde del Mediterraneo finiva lì. Il processo imboccava un binario morto da dove solo un miracolo potrà farlo ripartire. E la missione Minniti non emerse dal cono d'ombra.
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