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Colloquio con Cesare Romiti di Francesco Bonazzi
Quattro mesi per conoscere i veri piani di Fiat-Chrysler sono troppi. Soprattutto per capire che ruolo resta all'Italia dopo la brillante operazione di Capodanno messa a segno da Sergio Marchionne.
Cesare Romiti, al timone della Fiat per oltre vent'anni (dal 1976 al 1998), è a Roma in vacanza, ma come suo solito è informatissimo e segue le vicende della Fiat quasi con lo stesso affetto con cui segue le gesta calcistiche della sua Roma.
"Marchionne si è dimostrato un abile negoziatore, ma sarebbe auspicabile che tirasse fuori i piani industriali prima di aprile", dice Romiti a Dagospia. E la politica italiana farebbe bene a "non dimenticare l'importanza della Fiat per il Paese", anche perché "qualche preoccupazione" c'è.
- Dottor Romiti, che effetto le fa vedere la fusione Fiat-Chrysler andare in porto ventitre anni dopo il fallimento delle trattative con Lee Iacocca?
"Mi faccia innanzitutto correggere un'inesattezza che ogni tanto viene ancora spacciata come verità acquisita. Non è vero che Gianni Agnelli e il sottoscritto persero una grande occasione nel 1990. Iacocca amava molto l'Italia e teneva parecchio all'operazione, noi la esaminammo con attenzione e non le nascondo che l'Avvocato e io eravamo perplessi sotto il profilo finanziario. Ma chi era nettamente contrario era il vicepresidente, il dottor Umberto Agnelli".
Avevate dubbi sui conti di Chrysler?
"Beh, insomma..."
- Dubbi che sicuramente non era elegante tirar fuori dopo una trattativa appena sfumata.
"Diciamo che andammo comunque in America con l'Avvocato e ricevemmo Iacocca nei nostri uffici di New York. Esaminammo a fondo le sinergie, ma eravamo assai dubbiosi per il fatto che Chrysler aveva un patrimonio netto negativo, gravata com'era dagli impegni per l'assistenza pensionistica e sanitaria dei suoi dipendenti. Se avessimo fatto la fusione con quei numeri, avremmo messo a repentaglio la sopravvivenza di Fiat in Italia. Fu quindi con grande dispiacere che dicemmo di no a Iacocca".
- Anche oggi, gli impegni per il welfare dei dipendenti Chrysler sembrano pesare molto sulla fusione. E gli analisti stanno studiando con attenzione il debito complessivo del nuovo gruppo. Lei che idea si è fatto?
"Posso dire che allora quel peso era notevole e presumo che lo sia anche oggi. Per il resto, staremo a vedere quanto i debiti influiranno sui progetti di sviluppo".
- Intanto gran pokerista, Marchionne...
"Senza dubbio. Si è dimostrato un abile negoziatore. Dopo di che i piani industriali li vedremo ad aprile".
- In Italia, politica silente o plaudente. Come gran parte dei giornali. Ma le incertezze sul futuro degli impianti italiani restano tutte.
"Guardi, sarebbe decisamente auspicabile che Marchionne li tirasse fuori prima di aprile, quei piani. Ad aprile, un terzo dell'anno è già passato ed è un po' tardi. Io non so cosa sta facendo il governo e non mi permetto di entrare nell'agenda politica, però mi sembra opportuno ricordare che quando trattavamo con Iacocca, informalmente, fummo chiamati da esponenti del governo. Mi auguro che anche oggi, al governo, ci sia chi non si dimentica dell'importanza della Fiat per l'Italia".
- Che futuro vede per gli stabilimenti italiani con la fusione?
"Non so dire quale possa essere il futuro di Fiat in Italia. Vedendo che cosa fanno oggi gli stabilimenti nella Penisola e in Europa, capisco chi è preoccupato. Ma mi lasci dire che sono molto orgoglioso di vedere quanto è diventato strategico Belo Horizonte, in Brasile, perché fu una mia realizzazione".
- Con solo il cosiddetto Polo del lusso, in Italia, non rischiano di restare a casa molte persone?
"A questa domanda mi conceda di non rispondere perché non sarebbe corretto, da parte mia, entrare nella gestione industriale del gruppo".
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