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Francesco De Dominicis per "Libero Quotidiano"
Dopo il primo giro di boa la riforma del lavoro già corre il rischio di affondare. Certo, il cammino è lungo e il traguardo lontano: con l’ok del Senato arrivato mercoledì in un’aula di palazzo Madama trasformata in campo di battaglia, adesso il cosiddetto «jobs act» - che è solo una legge delega - passa all’esame della Camera.
Poi toccherà al governo di Matteo Renzi - entro sei mesi dall’entrata in vigore - mettere a punto i decreti delegati. Provvedimenti che, se l’esecutivo non cambierà idea e non si piegherà alle proteste in piazza minacciate dalla Cgil, dovrebbero riformare profondamente l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori.
L’obiettivo dell’ex sindaco di Firenze è ridurre l’obbligo di reintegro in caso di licenziamento senza giusta causa, in modo da dare mani libere alle aziende nel mettere alla porta i dipendenti. Ma vista la vaghezza della delega - nel testo non c’è alcun riferimento esplicito all’articolo 18 - non è da escludere un’eventuale censura da parte della Corte costituzionale.
Si chiama «eccesso di delega» ed è un appiglio che potrebbe essere sfruttato senza difficoltà dai lavoratori e dai loro avvocati per impugnare il «jobs act» portandolo sul banco del Giudice delle leggi. Esperti legali consultati da Libero sono convinti che se l’articolo 18 verrà sensibilmente ritoccato, si potrà sostenere che l’esecutivo sarà andato ben oltre i principi e i criteri direttivi stabiliti dalla delega.
Di qui l’eccesso che farebbe diventare la norma «incostituzionale». E in effetti la delega licenziata dal Senato è assai generica e non prevede la cancellazione dell’obbligo di reintegro. Ipotesi, quest’ultima, al centro dei dibattiti che hanno lacerato il Partito democratico, discussa nei talk show e solo accennata a palazzo Madama dal ministro del Lavoro, Giuliano Poletti.
Il ddl prevede «per le nuove assunzioni il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio» e prevede che lo stesso contratto sia promosso «come forma privilegiata» di rapporto «di lavoro rendendolo più conveniente rispetto agli altri contratti in termini di oneri diretti e indiretti». La parola chiave sarebbe «oneri indiretti», cioè i costi per i licenziamenti.
Tutto qui: nemmeno un’allusione alla cancellazione dei reintegri. Una vaghezza che, suggeriscono sottovoce al ministero dello Sviluppo economico, potrebbe essere interpretata anche come l’ennesima furbata di Renzi: se nei prossimi mesi fiuterà una brutta aria e vedrà le piazze piene di lavoratori in protesta, farà un passo indietro trincerandosi dietro la «scusa» dei dettati normativi. In ogni caso, raccontano che a palazzo della Consulta già si stiano preparando: i consiglieri della Corte costituzionale sono certi che la riforma arriverà rapidamente sotto le loro lenti. La sentenza di incostituzionalità del «jobs act» già prende forma.
L’ombra di illegittimità costituzionale sull’articolo 18 non è l’unico punto oscuro. Fabio Mussi, oggi in forza a Sinistra ecologia e liberà, in passato ministro con Romano Prodi, ha portato alla luce la bufala della riduzione delle forme di contratto precario: parlando ad Agorà su RaiTre, Mussi ieri ha detto che delle 46 forme di lavoro precario, 45 restano. A saltare, secondo l’ex ministro, sarebbe solo il contratto a progetto.
L’altra questione, illustrata nei giorni scorsi da Stefano Fassina (uno dei più critici con Renzi, nelle file del Pd), riguarda il sussidio universale. Il nodo sono i fondi: per assicurare 6-700 euro al mese a mezzo milione di disoccupati (su oltre tre milioni) servirebbero 4 miliardi l’anno. E dove trova il governo Renzi le necessarie coperture finanziarie? Anche questo, nelle delega, non c’è scritto. twitter@DeDominicisF
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