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CONTE HA TROVATO IL MODO PER FARSI AMARE DALLE TV: RIEMPIRLE DI SOLDI (PUBBLICI) - IL GOVERNO DARÀ UNA FETTA DEL CANONE MAGGIORE ALLA RAI, MA IN CAMBIO LA TV PUBBLICA DOVRÀ RINUNCIARE A UNA PARTE DELLA PUBBLICITÀ A PREZZO STRACCIATO CHE PUÒ GARANTIRE AGLI INSERZIONISTI PROPRIO GRAZIE AL BALZELLO IN BOLLETTA. COSÌ CAIRO E BERLUSCONI AVRANNO PIÙ SPOT E DUNQUE BILANCI PIU' RICCHI
Ilario Lombardo per ''La Stampa''
In un capolavoro di equilibrismo, Giuseppe Conte potrebbe riuscire a mettere d'accordo la Rai e i suoi diretti avversari sul mercato. Il governo lascerebbe a Viale Mazzini una porzione maggiore del canone tv, nell'ordine dei 150-200 milioni di euro, in cambio però della rinuncia di una quota di pubblicità con la quale in parte si finanzia, vendendola a prezzi stracciati, il servizio pubblico.
La questione è stata posta sul tavolo degli Stati Generali ma in realtà è già da mesi che si trascina all'interno della Commissione di Vigilanza Rai, con implicazioni che mescolano interessi privati e opportunità politiche. Perché gli spettatori più interessati a questa vicenda sono Silvio Berlusconi, leader di Forza Italia e padrone di Mediaset, e Urbano Cairo, editore di La7 e del Corriere della Sera, alle prese con il crollo della pubblicità, causa coronavirus. Per comprendere al meglio la vicenda, però, bisogna inquadrarla nella cornice delle puntate precedenti.
Dal 2015, quando il governo Renzi obbligò al pagamento dell'imposta della tv in bolletta, una parte del canone è finita nel Fondo per il pluralismo dell'informazione. Un'altra fetta la trattiene il Tesoro, al punto che sono anni che l'Usigrai denuncia che «su 90 euro di canone, solo 74 arrivano alla Rai. Lo Stato - spiega il sindacato - trattiene 340 milioni di euro». Dopo tre ricorsi al Tar, lo scorso 7 febbraio è intervenuto pure il Consiglio di Stato che ha accusato il ministero dello Sviluppo economico di «inadempienza».
Nel frattempo però la Rai è inseguita dall'accusa di fare «dumping» sulla pubblicità. In poche parole applica sconti tali da sfavorire la concorrenza, divorandosi una torta che servirebbe a sfamare non solo altre tv, ma anche radio o giornali. La pratica è diventata talmente diffusa che è dovuta intervenire l'AgCom, l'Authority garante degli equilibri sul mercato della comunicazione.
Lo scorso 14 maggio, il presidente in uscita Angelo Cardani è stato ascoltato in Vigilanza dove ha lanciato un atto d'accusa durissimo. «La concessionaria del servizio pubblico - è scritto - aveva posto in essere un sistema non oggettivo e non trasparente per la formazione dei prezzi di vendita degli spazi pubblicitari», favorendo «una politica commerciale ambigua e potenzialmente lesiva di un corretto assetto di mercato». Cardani parla anche di opacità, perché, nonostante le numerose richieste, la Rai si è rifiutata di fornire i dati chiesti dall'Autorità.
Accuse che hanno trovato ascolto a Palazzo Chigi. Il caso è finito così nelle mani della politica. Non solo Giorgio Mulè, per conto di Forza Italia, partito che ha ovviamente a cuore gli interessi di Mediaset, ma anche Michele Anzaldi di Italia Viva chiede conto di sconti che arrivano al 95-97% del prezzo di listino, «devastanti non solo per La7, Discovery, Mediaset, ma anche per la carta stampata».
L'11 giugno, poi, in attesa di sentire cosa ha da dire l'amministratore delegato Fabrizio Salini, è andato in scena un confronto tesissimo tra Antonello Giacomelli, ex sottosegretario del Pd alle Comunicazioni e l'ad di Rai Pubblicità Gian Paolo Tagliavia, che ha tentato di abbozzare una difesa. Qualcuno ovviamente a Viale Mazzini storcerà il naso, ma se il premier alla fine dovesse riuscire a impacchettare all'interno di una norma il suo compromesso, avrebbe trovato una formula (più canone, meno pubblicità) in grado di rispondere a tante lamentele.
All'azienda che pretende il resto dell'imposta tv, a chi pensa che dipendendo meno dal mercato la Rai tornerebbe a fare più servizio pubblico, e ai concorrenti che vogliono la propria fetta di pubblicità. Uno di questi è Berlusconi, che all'occasione ha più volte fatto intendere di essere in grado di dare una mano al governo. -
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