DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
M.Gu. per il “Corriere della Sera”
roberto speranza renzi moretti all incontro con i grillini
Una palla di neve che diventa valanga. Prima Civati, Fassina, D’Attorre, Rosy Bindi. Poi Bersani, Letta, Cuperlo, Epifani, Pollastrini... E alle sei di sera, quando Roberto Speranza ufficializza che non metterà la sua firma «su questa violenza al Parlamento» e dunque non voterà la fiducia a Renzi, il tormento della minoranza si trasforma in rivolta. Se l’onda non si sfalda, i dissidenti saranno una trentina o «persino 60», azzarda Davide Zoggia.
Il Pd è lacerato e il fantasma della scissione torna a materializzarsi.
«È un passaggio drammatico, se non vado via io mi cacceranno loro» è lo stato d’animo di Pippo Civati. «La misura è colma» dichiara Enrico Letta da Firenze, dove è andato a portare il suo libro in dono al carabiniere Giangrande, colpito il 28 aprile del 2103 davanti a Palazzo Chigi. «Non c’era nessun motivo di mettere la fiducia e io non la voterò, le regole si fanno tutti assieme — si smarca l’ex premier — È la logica inaccettabile del “qui comando io”. Se lo avesse fatto Berlusconi saremmo scesi in piazza».
Dopo ore di incertezza e contatti nervosi, è stata la scelta di Speranza a gonfiare l’onda dei ribelli. Il capogruppo dimissionario, che guida il pattuglione di Area riformista (un centinaio di deputati), ha resistito al pressing di Guerini e Rosato, poi si è preso qualche ora di riflessione e alla fine, con un coraggio che ha sorpreso i renziani e spiazzato i più dialoganti tra i suoi, ha rotto gli indugi.
«Il governo aveva avuto dimostrazione di totale lealtà sulle pregiudiziali, perché mettere la fiducia? — attacca Speranza — È un errore gravissimo». E adesso? Dovrete lasciare il Pd? «No, io non uscirò mai. Ma questo fortissimo strappo tradisce valori fondanti ed essenziali».
Da giorni il tam tam di Palazzo Chigi dice che i dissidenti si conteranno sulle dita di una mano, ma ieri il vento è cambiato di colpo e i taccuini dei cronisti si sono infittiti di nomi: Lattuca, Miotto, Meloni... La scelta di Renzi di imporre la fiducia ha esacerbato gli animi. Il resto lo ha fatto l’umiliazione, mista alla voglia di rivincita. E l’idea che questo passaggio sarà il primo mattone per costruire l’alternativa a Renzi.
«Sarà una giornata drammatica», prevede Letta. E Marco Meloni, molto vicino all’ex premier, annota su Facebook «giornata nera per la nostra democrazia», postando i versi di una canzone in dialetto sardo che parla di «oppressori», «tiranni» e «dispotismo».
La riunione con Speranza è andata avanti fino a notte, cinquanta deputati in contatto con Letta, Bersani, Bindi e gli altri. La strategia? Il primo passaggio sarà disertare l’aula al momento della fiducia, il secondo il non voto sulla legge. E c’è chi si spingerà oltre, fino a bocciarla. «Negherò la fiducia a un atto improprio del governo — scandisce in Aula Rosy Bindi — Se il governo non l’avesse messa non avrei partecipato al voto, ma ora non si può non prendere in considerazione un voto contro una legge resa immodificabile».
Alfredo D’Attorre parla di «grave sconfitta» del premier, del governo e del Pd e ritiene «essenziale che una parte del partito non chini il capo davanti a una fiducia che resterà macchia duratura». Pensa di andarsene? «Non è questo il Pd che vogliamo».
E se anche il correntone dialogante di Area riformista dovesse ridursi a un correntino di duri e puri, Miguel Gotor è contento: «È un nucleo riformista che darà battaglia nel nome dei suoi valori originari». Anche un dialogante come Nico Stumpo è furioso e parla di «prevaricazione e violenza» sul Parlamento: «Non tolgo la fiducia al governo, ma non so se voterò la legge». A distanza si fa sentire anche Antonio Lungo, segretario del Pd in Basilicata, unico su 21 a non aver firmato a sostegno di Renzi: «È una forzatura estrema, l’Italia ha sempre pagato questi strappi».
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